19 luglio 1992, ricordo che…

Un boato che scuote le coscienze, che fa emergere la stessa rabbia, la solitudine e la voglia di cercarla quella verità nascosta, continuando a seguire i suoi suggerimenti: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.” Venticinque anni fa, in via D’Amelio Cosa nostra uccise il giudice Borsellino lasciando una scia di polvere, cenere e dolore. Quesiti irrisolti e un forte desiderio di estirpare questo male chiamato mafia.

“Era nell’aria, come quei temporali di mezz’estate che faranno tremare cielo e mare per un’ora, poi più nulla. Poi l’arcobaleno, poi quiete assoluta, poi lo scirocco sconfitto che, strisciando, se la dà a gambe. Poi tutto come prima. – A ricordarlo è la scrittrice Silvana Grasso –. Così è stato per Giovanni il 23 di maggio, così per Paolo il 19 di luglio. Tutto come prima, spazzate vie le macerie della strage, spazzata via da un’alluvione di “quiete” apparente ogni inquietante traccia di voragine, di squarci d’asfalto grandi come lo squarcio dell’anima d’una Sicilia sventrata macellata, ieri e oggi. Attentati e attentatori, scesi dal podio della chiacchiera a breve termine, senza neanche fragore di tritolo, la mandano in pezzi, poi la seppelliscono in discarica, la moribonda Sicilia. Certe assenze non trovano pace mai, certe assenze scavano un epicedio di lutto nell’anima dove, solo, possono restare incontaminate dalle fanfare di nuovi e vecchi refrain d’una nuova vecchissima politica che, dedita allo spaccio della “legalità”, seppellisce da vivi i suoi morti. Più di tutto temetti la “quiete” apparente del giorno dopo, dell’anno dopo, della vita dopo. E quiete fu”.

“Come ogni anno si avvicina il 19 luglio e  – secondo tradizione – parteciperò alla Fiaccolata che si concluderà in via D’Amelio – dichiara Nello Musumeci, deputato reginale, fino a pochi mesi fa presidente della Commissione  antimafia -. Non lo considero un rito stantìo. Ricordare serve non soltanto a non dimenticare, ma a trarre dall’insegnamento di una storia straordinaria linfa vitale da trasmettere ai più giovani. In Paolo Borsellino abbiamo individuato la stella polare del nostro percorso. E lo abbiamo fatto in… punta di piedi, senza mai cadere nella strumentalizzazione sterile e rispettando la storia di un uomo che oggi appartiene a tutti e che non può essere tirato per la giacca, a venticinque anni dalla sua tragica uccisione. Abbiamo, però, un dovere morale: se #diventeràbellissima è l’auspicio che abbiamo fatto nostro, l’obiettivo più importante delle nostre vite, dobbiamo essere degni di questa scelta. Se ne facciano una ragione tutti, a partire da quanti non si arrendono al cambiamento necessario che dovremo e vorremo imporre”.

“Sono passati 25 anni e sembra ancora ieri. Un tuono fortissimo in un pomeriggio assolato che mi fece sprofondare nella disperazione più totale, facendomi sentire come il povero Antonino Caponnetto – ricorda Mario Conte, giudice della Corte d’Appello di Palermo – ed invece poi vedere nascere e crescere la sensazione che da quel giorno è rinato tutto. Come se quel chicco di grano così prezioso dovesse per forza perire per produrre frutti copiosi, cioè finalmente quel senso comune di repulsione nei confronti della mafia. Non ho mai conosciuto Paolo Borsellino. Ma la mia esperienza lavorativa mi ha portato ad incontrare tante persone, colleghi e non, che me lo hanno descritto così bene da farmelo quasi sentire ancora vivo. E soprattutto ho avuto il piacere e l’onore di conoscere tutti i componenti della sua meravigliosa ed importantissima famiglia. Dalla dolcissima Agnese ai bellissimi Manfredi, Lucia e Fiammetta, splendide testimonianze di come la dignità riesca a far sopportare in maniera egregia anche i dolori più incommensurabili. Ed è questo il ricordo che ho di Paolo Borsellino. Lontano da ogni retorica e nel segno, costante, di una Giustizia ed una Verità da inseguire sempre e ad ogni costo”.

“Palermo circa tre ore e mezza dopo. La Fiat uno è morta. Ho tirato a tavoletta per 192 chilometri – ricorda Valter Rizzo, all’epoca giornalista di Telecolor, oggi alla Rai – . Via D’Amelio, ma dove cazzo è questa via D’Amelio?  Seguo la gente, il sibilo delle sirene, poi vedo una volante che fila verso monte Pellegrino e mi ci attacco dietro. Mi faccio portare. Poi vedo il fumo, sparso dal vento, debole, il ricordo di quello che era stato tre ore prima. La Uno si spegne e la molla di sbilenco. Scendo. Seguo il puzzo e punto un camion dei pompieri. Non ho preso la penna e il taccuino. A che mi servono?  So che non avrò nulla da segnare e che quello che vedrò girando quell’angolo che si avvicina sempre più, non avrà necessità di essere fissato sulla carta. L’angolo si fa sempre più vicino. L’odore della pentrite mi sfonda le narici, penetra nel cervello, si mischia ad un odore dolciastro e acre che sa di uomo, di carne, di vita che diventa morte. L’angolo si fa sempre più vicino e io non mi rendo conto che sto correndo, come se dovessi arrivare prima di qualcosa, prima che l’orrore mi sommerga. L’angolo si fa sempre più vicino. Più vicino. L’orrore… l’orrore…”.

“Era una domenica di luglio. Insieme a un gruppo di amici avevamo organizzato una gita al mare e dopo la spiaggia, sulla via del ritorno, ci eravamo fermati in un bar. Ricordo un grande poster con la faccia di Alesi alla guida della Ferrari –  aggiunge lo scrittore Aldo Penna –. Poi le prime notizie dalla radio, dai tg Borsellino, hanno ucciso Borsellino, un’altra bomba e lo sconforto trasformarsi prima in rabbia poi in silenziosa rassegnazione. Non c’era niente da dire. Eravamo assediati, circondati, potevano fare di noi quello che volevano. I simboli quando cadono fanno un rumore sinistro. Quel fumo che vedevamo levarsi in lontananza, da quella città calpestata e derisa era il segno di una impossibile redenzione…di un tributo pagato e una violenza che continuava senza fine. Ma il giorno dopo lo sconforto era rabbia e la rabbia azione dei cittadini che a migliaia e poi a milioni chiedevano di cambiare, di reagire con energia. Una forza che per fortuna lo Stato ritrovò…trasformando finalmente quanto Falcone e Borsellino per anni avevano chiesto invano in norme e mezzi”.

Quel giorno ero al mare a casa di amici. Il solito pranzo andato per le lunghe, il caldo, l’anguria fresca, l’inizio di una siesta su una vecchia sdraio che prometteva un sicuro mal di schiena – dichiara Alfio Sciacca giornalista de Il corriere della sera – appresi della strage dalla televisione. Sgomento, niente parole, l’accenno di una lacrima negli occhi di un’amica. Un frullare di emozioni che mi restituì solo il volto di Borsellino il giorno dei funerali di Giovanni Falcone, appena tre mesi prima. Ero andato a Palermo l’indomani della strage di Capaci. Qui però i ricordi si fanno confusi. Forse all’esterno della cattedrale dove si celebravano i funerali o forse nella camera ardente in tribunale a Palermo la memoria mi restituisce il volto di Paolo Borsellino. Il viso impietrito è ancora oggi una delle poche cose che ricordo nitidamente dei giorni successivi alla strage di Capaci. In quella espressione del volto c’era qualcosa che non era più di questa terra. Paolo Borsellino stringeva tante mani, abbracciava amici e colleghi ma era come solo in mezzo alla folla. Pareva viaggiare su frequenze a noi tutti ignote. Solo due mesi dopo capimmo cosa nascondeva quella espressione e ci fu chiaro che la sua fine era iniziata il giorno della morte di Falcone. Lui lo sapeva noi no, ma ad essere attenti gli si poteva leggere in viso”.

Avevamo finito da poco una partita di calcio, insieme ad alcuni amici eravamo andati in un bar a bere una bibita – dichiara Giuseppe La Venia, giornalista Rai – ricordo la TV accesa, le prime notizie senza immagini, i commenti dei bene informati seduti al tavolo: cu si metti contru, u sapi a fini cchi fa. Tornai a casa, rimasi davanti alla TV sino a notte fonda. ero uno studente che cominciava a collaborare con la radio locale, l’indomani il programma del mattino- normalmente fatto di dediche e amenità varie- fu sommerso di telefonate in diretta, come se tutti avessero la necessità di sfogare la rabbia per una volta, nessuno sembrava avere paura. durò solo qualche settimana”.

“Avevamo seppellito 57 giorni prima Giovanni Falcone con la moglie e gli agenti della scorta e ancora fremevamo di rabbia, dolore e indignazione, ci racconta la scrittrice Marinella Fiume, erano nostri quei morti e non volevamo dare la delega a nessuno, né ai Partiti né alle Istituzioni né allo Stato perché li ritenevamo colpevoli di averli lasciati morire se non – peggio – di averli ammazzati. Ci organizzavamo in Comitati spontanei di base: Il Comitato dei Lenzuoli contro la mafia, Le donne del digiuno… Scrivevamo su lenzuoli bianchi che appendevamo ai balconi il nostro NO, il nostro ORA BASTA, BASTA, BASTA!  E invece no, a loro non bastava… La risposta venne netta e chiara il successivo 19 luglio 1992, quando un’auto imbottita di esplosivo scoppiava in via D’Amelio, sotto il palazzo dove abitava la madre di Borsellino, presso la quale il giudice si era recato in visita e morivano Paolo e gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi. Volevamo giustizia, non ci bastava piantare carrubi. Ma dopo 25 anni di depistaggi, pentiti che parlano e pentiti che smentiscono, processi fatti e disfatti, mafiosi arrestati e liberati, restano ancora oscuri mandanti ed esecutori, sepolti sotto l’iceberg di complicità con lo Stato su cui si impedisce a magistrati come De Matteo di far luce… Una sola verità: la mafia resta forte perché settori dello Stato sono complici, ci fanno affari, se ne servono, eliminano chi fa ombra. La fine della stagione stragista può esserne una spia. Non c’è più bisogno di sparare, basta farsi bene rappresentare. E allora cosa sono queste commemorazioni ufficiali, queste corone d’alloro deposte magari da chi tutto questo ha sulla coscienza? Deponiamo i lenzuoli nella cassapanca. In Via D’Amelio è morta la speranza dei cittadini onesti”.

“19 luglio 1992. Erano anni in cui si conviveva con notizie drammatiche e chi come me lavora alle news viveva in uno stato di allerta, tra delitti, blitz e attentati mafiosi, ricorda Fabrizio Villa, fotoreporter. Pur essendo sempre impreparati di fronte a un evento eclatante anche quel 19 luglio del 1992 la mia attrezzatura era pronta… partì quasi subito per Palermo prendendo un passaggio con l’auto di alcuni colleghi. Lungo la strada che da Catania ci portava a Palermo nessuno parlava e io mi sentivo pieno di angoscia, preoccupato. Quando arrivai in via D’Amelio le auto della scorta di Paolo Borsellino, esplose ormai da alcune ore, ancora fumavano. Cercavo la giusta inquadratura ma sentivo di trovarmi difronte a un avvenimento unico. Si respirava un brutto odore mai sentito prima, anche la luce era diversa. Scattavo e nervosamente riavvolgevo i rullini. Quei fotogrammi sono impressi ormai nella mia mente”.

“Ero in vacanza con amici a Milano. Eravamo andati a trovare il fratello di un amico che faceva il carabiniere, dichiara Agata Finocchiaro giornalista de ilgiorno.it, quando esplose la bomba in via D’Amelio lui sentì alcuni colleghi che sulla ricetrasmittente parlavano di una bomba in Sicilia e di un magistrato morto. Capì subito di cosa si trattava e gridò verso di noi: “Hanno ammazzato Borsellino”. Ricordo che eravamo in via Monte Napoleone a commentare i prezzi stratosferici delle boutique. Le risate si trasformarono in una smorfia di sgomento. Il carabiniere corse in caserma e noi in albergo a cercare notizie dal primo tg. La vacanza per me finì quel giorno”.

“Era una domenica e in quel periodo, per risparmiare, la TV siciliana per cui lavoravo aveva deciso che i tg le domeniche d’estate potevano anche non andare in onda. Così ero in spiaggia, con amici, quando arrivò la chiamata della TV nazionale con cui collaboravo: “C’e stata un’altra esplosione a Palermo” –  aggiunge Fabio Albanese giornalista de La Stampa -. Non ci volle molto a capire di che tipo di esplosione si trattasse. Lasciai amici e fidanzata al mare e corsi in redazione. In pochi minuti mi ritrovai in onda, senza giacca con una polo addosso, per una edizione straordinaria che durò ore, con I valorosi colleghi della redazione di Palermo mobilitati in pochi minuti. Il burocrate di turno aveva deciso che l’informazione la domenica poteva anche riposare. Noi invece riaprimmo in pochi minuti la bottega per raccontare una delle pagine più tristi della storia siciliana. Con le lacrime agli occhi e una gran pena in fondo al cuore”.

“In campagna con la famiglia e gli amici a godermi una giornata di sole ammirando il vulcano. Telecolor, dove lavoravo, aveva abolito le domeniche di lavoro per risparmiare, come se i fatti si attenessero alle regole del calendario – ci dichiara il giornalista Nicola Savoca -. La strage di via D’Amelio, nella sua immediatezza, mi toccò seguirla in tv da semplice spettatore. Su un canale Mediaset – Italia Uno, se non ricordo male – era arrivata la notizia di un attentato. La diretta di Salvo Sottile si trasformò via via in un crescendo di angoscia per ciò che conteneva: in via D’Amelio abita la madre di Paolo Borsellino, il magistrato era andato a trovarla, con lui c’erano gli uomini della scorta. Davanti a quelle immagini, ricordo, improvvisammo un inutile talk-show sui mandanti di quella strage. Nel frattempo mi tenevo in contatto con i miei colleghi di Catania e Palermo (dove avevamo una redazione) per approntare anche noi una diretta dal luogo dell’attentato, cosa che facemmo di lì a poco. Come per Capaci, anche per via D’Amelio fu poi impresa ardua andare in onda e tenere a bada il coinvolgimento emotivo. Da siciliani volevamo bene a Falcone e Borsellino. Sentire, dopo l’attentato, Antonino Caponnetto dire al microfono di Gianfranco D’Anna della Rai “È finito tutto” mi atterrì. Per fortuna non era finito tutto, ma allora non lo sapevo”.

“Una domenica di festa. Un grande pranzo di famiglia, un rinomato ristorante catanese. Il mare che lambiva, dietro le tende mosse dal vento, risate e racconti, il brusio continuo e sommesso di tanti che si rivedono per un’occasione importante – ricorda il giornalista e docente Giuseppe Condorelli –. Quasi alla fine di un pranzo memorabile. Gli uomini, ormai smanicati fumano, le donne a crocchio a cinguettare, noi più giovani nell’attesa di un rompete le righe che ci riconsegnasse a noi stessi, ai miei trent’anni. Fa caldo. Si suda. Una tv rigurgita immagini sbiadite, qualcuno alza il volume, la notizia fatica a trovare spazio, consistenza. Poi la concitazione del telegiornale in “edizione straordinaria” e quelle immagini di morte che scorrono mute sul mio vestito della festa, sul nostro sbigottimento, sull’orrore che viene a sedersi a tavola con noi”.

“Quel pomeriggio di torrida estate, calda e silenziosa ero a casa, al Pc. Non ero andato al mare perché dovevo scrivere degli articoli di cronaca da Zafferana Etnea, Milo e Sant’Alfio per il Giornale di Sicilia dell’indomani –  dichiara Mario Pafumi giornalista del Giornale di Sicilia – avevo la tv accesa, in sottofondo. Pochi minuti dopo le 17 di quel 19 luglio 1992, un’edizione straordinaria del TG 1, che mai dimenticherò, dà le primissime notizie di una spettacolare esplosione in via Mariano D’Amelio, una traversa di via dell’Autonomia siciliana, nel quartiere della Fiera del Mediterraneo. Una strada sconosciuta perfino agli stessi palermitani fino a quel momento. Immagini senza commento, “Live” come si dice ora, con suoni e voci ambientali: le sirene, gli elicotteri, le urla dei soccorritori, gli agenti che impedivano ai giornalisti di filmare i resti dei corpi mutilati. Non era necessario forse alcun commento, di fronte a quelle immagini. Era certo nell’aria che il prossimo bersaglio della mafia sarebbe stato Paolo Borsellino, ma non ci aspettava che avvenisse così presto e con quelle agghiaccianti modalità in luogo pieno di possibili vittime innocenti. Saltai quasi dalla sedia. Mi misi le mani ai capelli e sgorgò spontaneo dalla gola un urlo, qualcosa tra rabbia, imprecazione e dolore: “Nooooo!!!”. Ho ancora catturate nelle retine quelle terribili scene di fuoco, vapori di morti, di feriti portati in braccio, vigili del fuoco instancabili nell’opera di spegnimento degli ultimi focolai, case sventrate, carcasse di auto completamente bruciate disperazione, dolore. Per l’indomani non mandai pezzi alla Redazione catanese del GdS”.

“Quel giorno del 1992 era un giorno come tanti altri, arrivata a casa, come per mia abitudine, accesa la televisione la mia attenzione fu colta dalla voce concitata del giornalista, parlava di un magistrato e della sua scorta, uccisi sotto a porta di casa della madre, le immagini terribili la devastazione del posto, in quel momento il mio pensiero ę andato a quella vecchia madre e al suo dolore –  dichiara Margherita Ferro, insegnante -. Pensai che Ognuno di noi, prima o poi muore, così come è naturale nella vita, quel giorno la madre di Borsellino morì insieme a suo figlio Paolo straziata da tonto odio”.

Era il 1992, da poco laureato, ed espletavo il servizio di leva obbligatoria in Aeronautica, anche se mi avviavo lentamente al congedo alla fine quella estate. Era una domenica, me lo ricordo bene, afferma il giornalista e docente Rosario Faraci. Avevo capito meglio, grazie anche al servizio militare, cosa significasse il senso dello Stato. Quella esplosione in via D’Amelio significava per me un duro colpo al cuore dello Stato. E mi provocò sgomento. La stessa sensazione provata qualche mese prima appresa la terribile notizia della morte violenta di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta. Ero più piccolo quando rapirono Aldo Moro il 16 marzo 1978 uccidendolo poi il 9 maggio. Provai anche allora analogo senso di sgomento. Matrici diverse degli attentati, la mafia e il terrorismo, genesi diverse delle due organizzazioni criminali, ma analogo modo di attaccare lo Stato con una politica stragista per farci spaventare. C’era un tempo in cui il potere dell’amore espresso da grandi uomini di Stato li ha resi grandi, indimenticabili e ne tiene viva la memoria ogni giorno. Oggi vedo intorno pochi uomini di Stato e solo amore per il potere. Che è anche il terreno più fertile per far crescere tutto ciò che va contro lo Stato e il senso delle istituzioni”.

“Strano: ho un ricordo nitido, preciso della strage di Capaci, ma non di via D’Amelio, come se l’avessi rimosso volutamente, – aggiunge Daniele Lo Porto – ero a Nicolosi, in ferie dopo aver finito da poco la mia esperienza di coordinatore della redazione messinese di Telecolor. Sicuramente sarò rimasto impietrito appena saputa la notizia, ma è tutto cancellato. Indelebile, invece, il giorno dopo, quando sul monitor della redazione scorrevano le immagini girate dai nostri operatori della redazione di Palermo. Fotogrammi agghiaccianti anche per noi che in quegli anni di guerra di mafia, a Catania come a Palermo, a Messina come a Gela, eravamo abituati a vedere sangue e dolore. Ma quelle scene erano troppo crude anche per noi: fumo e sangue, fiamme e corpi, pezzi di corpi. Cancellammo per rispetto delle vittime quelle più terribili, un groppo in gola, un’atmosfera surreale in redazione tra frenesia professionale e il desiderio di estraniarsi. E ricordai le parole pronunciate da Paolo Borsellino pochi giorni prima, quando chiese a quelli che sarebbero stati i suoi carnefici di evitare di spargere altro sangue oltre il suo. Non fu ascoltato: bisognava provocare la paura oltre l’orrore. Fu un boomerang per gli stragisti di Cosa Nostra”.

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