Campagna e scampagnate

| Salvo Reitano |

Tempo di primavera. Tempo di gite fuori porta. Da Pasquetta al Primo maggio passando per il 25 aprile è tutto un fumare di bracieri accesi in mezzo al verde.
Non me ne voglia il lettore ma io sono sempre stato per la campagna, un po’ meno per le scampagnate. Le scampagnate sono il riposo che segue il giorno di festa. Un’altra veste che si dà al nostro modo di vedere e di pensare le cose: dopo Natale, dopo Pasqua, per la Liberazione, la Festa del lavoro e Ferragosto. Ma questa veste non è, in fondo, che una fodera che ci tiene alla debita distanza dalla natura per poterne afferrare solo l’aspetto piacevole, quello che non costa fatica.
Ci mettiamo insieme uomini e cose per nostro diletto, e uomini e cose entrano in ciascuno di noi con leggiadra leggerezza tra nodi di salsiccia su bracieri scoppiettanti e bicchieri colmi di vino. La campagna, invece, è un’altra cosa: ci dà il sentimento del tempo che si rinnova su se stesso nel volgere delle stagioni. Un richiamo forte all’eterno.
Un tempo non molto lontano il vivere la terra, nella sua interezza, era l’occupazione principale di tutta la mia famiglia. Io ero appena adolescente e altri prima di me: il padre di mio nonno, mio nonno, mio padre avevano dato l’avvio. Una storia lontana che per me comincia quando ci spostavamo in campagna alla fine dell’anno scolastico. La campagna significava aria, luce, verde, azzurro, cielo, acqua, animali, piante e soprattutto libertà.
I miei primi compagni di giochi furono i figli dei contadini e degli allevatori di bestiame. Tre erano le principali voluttà: arrampicarsi sugli alberi, tuffarsi nelle gebbie piene d’acqua, vivere in mezzo ai vitelli, le mucche e le pecore di don Giacomo. Insomma, tutto ciò che era proibito in città.
La campagna era per me, i primi tempi, la “casina” costruita in cima a un ficus secolare dove con i piccoli compagni avevamo fissato un piano di tavole, delle panchette e una scala per raggiungerla. Tutto faceva parte dell’albero, anche noi.
Intorno alla cascina, alle stalle, alle balle di fieno e ai piccoli anfratti naturali di tronchi secchi vuotati dal tempo, giocavamo a nascondino. E ancora, poco oltre, altri alberi con rami storti e traversi che servivano da sedile, da altalena, da cavalluccio. Il pane bagnato nell’acqua e inzuccherato era la nostra merenda e bastava per tenerci in gran forma fino a sera. Eravamo in tanti: bambine e bambini figli di mezzadri e contadini. A mia memoria, se non m’inganna, erano più le bambine. Di bambini solo Tino e io. Tino che, nonostante i suoi dieci anni, aiutava spesso don Giacomo a governare gli animali, era stato l’architetto della “casina sull’albero”, ma chi comandava sul da farsi e come impiegare il tempo dei nostri giorni di vacanza erano le bambine. Tino che senza essere un secchione era, a detta dei suoi orgogliosi genitori, il più bravo della classe,  sapeva raccontare le storie e sulle sue parole accompagnate da un gesticolare da consumato attore si spegneva ogni rumore e si alzava il volume dell’attenzione.
Dalla “casina sull’albero” la terra pareva tanto grande e aperta che non se ne vedeva la fine. Ci chiedevamo spesso, io e Tino, a chi appartenessero quei campi così sapientemente coltivati. Facevamo tante ipotesi ma alla fine concordavamo sul fatto che fosse tutta roba di Dio, padrone assoluto di tutte le cose che sono in prestito agli uomini per il breve arco della loro esistenza.
La terra vista dalla “casina sull’albero” finiva, a levante e a ponente, là dove il sole nasce e va a nascondersi prima di consegnare il cielo a un fondale di stelle.
Di là, ai confini di quel piccolo pezzo di mondo arrivavano echi di voci a squarciare il silenzio, lontane eppure vicine. Venivano da un gruppo di case dall’altra parte della valle dove a sera facevano ritorno i contadini con le zappe in spalla, le schiene ricurve e i volti bruciati dalla calura.
Vedevo il sole tuffarsi sulla curva dell’orizzonte ai limiti del mio piccolo regno tra l’odore dei forni e il fumo che si levava dalle case. Allora ogni cosa terrena si componeva in pace nel suo cantuccio d’ombra in cima all’albero.
Nei giorni caldi e roventi d’estate l’alito salmastro del vento marino portava all’olfatto una fragranza arsiccia di foglie di pino, un sentore di bruciato: forse proveniente da un fosso a cui i contadini avevano appiccato il fuoco per eliminare i rovi e disperdere le vespe.
Nella “casina sull’albero” mi sentivo sospeso tra l’alba e il tramonto. Nel cerchio continuo del giorno e della notte mi sembrava di scoprire l’origine degli alberi, delle erbe, dei fiori, degli insetti, degli animali. La sorgente della vita che si alimentava e si consumava in quell’orizzonte azzurro come il cielo, tanto vicino eppure impossibile da raggiungere.
Spesso, nelle notti d’estate, mi addormentavo incantato mentre la luna si affacciava come un girasole alla finestra della mia stanza fino a quando una nuova alba schiariva il profilo della campagna e delle vallate e le stelle diradavano come punte di spillo.
La giornata estiva riprendeva piena di cose da fare per logorarsi, infine, stanca e struggente scolorando nel pomeriggio. Finche a sera non tornava la brezza marina a rianimare la vecchia cascina e le fronde del ficus secolare.
Nella “casina sull’albero” avevo trovato sereno consenso al mio sognare. A quei sogni ritorno, ora, sempre più spesso e che ogni tanto vi racconto a modo mio: da uomo diventato giornalista e da adolescente rimasto contadino. Per questo continuerò ad amare la campagna e un po’ meno le scampagnate.

 

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