Contro la mafia non basta la memoria da calendario

|Katya Maugeri|

Noi siciliani siamo bravi – dobbiamo ammetterlo – ad attenerci al calendario, passivamente. Siamo presenti a tutte le ricorrenze importanti e meno, pronti a commuoverci e a esprimere il nostro disappunto, la nostra indignazione per quelle ventiquattro ore dedicate alla memoria. Noi siciliani siamo bravi – dobbiamo ammetterlo – a dimenticare tutto, il giorno dopo.

Legalità, Cosa nostra, il caso Riina e lo scorso anno il caso legato ai funerali di Bernardo Provenzano, argomenti e polemiche che durano solo un paio di ore e poi come per magia tutto svanisce, tutto viene superato da qualche notizia più importante, divertente, trend. E l’educazione alla legalità che tanto promuovevamo nei “giorni della memoria”? E la lotta giornaliera alla mafia, quella fatta da piccole cose? E informare i giovani, parlare della mafia, del pizzo per non assuefarsi – solitamente parole e pensieri legati all’anniversario di Peppino Impastato – dove va a finire quell’entusiasmo e quella sete di legalità dalla quale siamo invasi nei giorni in cui sui social sfoggiamo foto e frasi da repertorio?
La legalità, parola ormai abusata da troppi, quando si dovrebbe parlare – invece – di normalità, vivere in una condizione di totale partecipazione. E sembra quasi – purtroppo – di essere tornati negli anni in cui “la mafia non esiste”, “meglio non intromettersi”, “Si sa in Sicilia va così”, omertà, superficialità e cattiva informazione nutrono le menti e le riflessioni di persone abituate ormai a scrivere—dire-affermare- ciò che va di moda in quel preciso giorno. Un po’ come viene utilizzato su Twitter: vengono suggerite tendenze alle quale attenersi per essere trend. E la Storia? E gli approfondimenti? E i pareri personali, dove sono?

Si ricordera quel terribile giorno, 19 luglio 1992, quando un’auto rubata contenente 90 chilogrammi di esplosivo scoppiò in via Mariano D’Amelio 21, sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Moriva il giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli ed Emanuela Loi. Dopo cinquantasette giorni dalla strage di Capaci.
La memoria non può essere effimera e legata a delle immagini riportate sui tg, a delle frasi che ripetiamo perché qualcuno le ha già ripetute prima di noi: dovremmo documentarci, leggere i “testamenti” che hanno lasciato a noi questi uomini, libri, interviste, cercare di camminare realmente su quelle idee concrete e piene di stimoli, per cercare di capire, per non cadere nella banalità di chi subisce il proprio ruolo di cittadino.

Venticinque anni da una morte che non trova risposte, caratterizzata da un depistaggio che ha impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo – e al 41 bis – nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni: annullate dopo 25 anni le condanne per strage. Quelle che erano state inflitte sulla base delle false verità di Vincenzo Scarantino. La corte d’Appello di Catania, infatti nei giorni scorsi, come chiesto dalla stessa Procura generale etnea, ha cancellato undici condanne in totale, di cui nove ergastoli per la strage di via D’Amelio. Colpo di spugna, quindi, alle condanne di Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura, difesi dagli avvocati Giuseppe Dacquì, Giuseppe  Scozzola, Vania Giamporcaro, Rosalba Di Gregorio  e Rosa Mangiapane. Di loro, Profeta e Orofino rispondevano di appropriazione indebita. Per gli imputati si aprono adesso le porte di possibili risarcimenti dei danni, perché molti sono rimasti in carcere per tantissimi anni prima di ottenere la revisione del processo, che nel 2011 è stata chiesta dalla stessa procura generale nissena dopo le nuove dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Resta ancora senza volto chi, dietro Cosa nostra, volle e ordinò l’eliminazione del magistrato a soli 57 giorni dalla strage di Capaci.

Sconfiggere la mafia e la mentalità mafiosa? Magari cominciando a riconoscere in loro la reale pericolosità, non cedendo a dinamiche apparentemente innocue, cercando di riconoscere in questa organizzazione criminale una presenza sempre più costante, riconoscendo nei gesti di ogni singolo cittadino la vera arma per sconfiggerla. È un cancro che si nutre di silenzio, di paura, di rassegnazione, è un’adulatrice che promette i piani alti e una vista mozzafiato. Non ci possiamo più nascondere: la mafia esiste, lo sappiano e ne conosciamo i desideri e le aspirazioni, sappiamo anche che sono pronti a tutti e non amano essere sconfitti.
Quindi non serve la “memoria social”, occorre una memoria concreta fatta di passato ma di azioni presenti volte al futuro, occorre informazione e pensieri urlati, dietro lo schermo diventiamo solo macchine sterili che producono solo fumo, poi svanisce e loro sono più forti di prima.
Domande senza risposte, un’agenda rossa scomparsa, ferite ancora aperte, che non potranno essere rimarginate senza la verità. Quella che da venticinque anni è sepolta sotto quella cenere, in via D’Amelio.

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