Crimini nel nome di Dio

| Salvo Reitano |

Sto regolando la barba allo specchio del bagno – guardo negli occhi un anziano signore che mi fissa ripetendo i miei movimenti – e le campane della Chiesa Madre si slacciano a festa. Si propongono a onde, concertano per larghe volute sul giro dei vecchi tetti delle case di Aci Bonaccorsi, insistono nell’aria di un mattino di agosto che si è gia intriso di luce e calore. Sono appena le 7,30 e la colonnina segna trentuno gradi. Lucifero, l’anticiclone africano, non ne vuole sentire di placare la sua ira. Resto ostaggio dei pensieri in divenire e un altro Lucifero, quello vero, si fa strada nella mia testa. Fa un passo indietro per diventare presente. Nel pieno della festa del Patrono, Santo Stefano, il piccolo paesino etneo che ha dato i natali a mia madre, dove abito da oltre trent’anni e ho cresciuto i mie figli, è scosso da una notizia di cronaca nera che ferisce l’anima e scuote le coscienze. Abusi sessuali su minorenni spacciati per riti religiosi all’interno di una comunità laica di presunta ispirazione cattolica con sede nella frazione di Lavina dove un “santone” e suoi “dodici apostoli”, secondo l’accusa, avrebbero violentato ragazzine di età compresa tra i 13 e 15 anni, anche con la complicità delle madri delle vittime. Il rapporto sessuale non come abuso, ma come “amore pulito, dall’alto, purificatore” compiuto da un “Arcangelo” reincarnato. Rabbrividisco nonostante il caldo e dico a me stesso: non si possono commettere crimini così efferati in nome di Dio, che tu ci creda o no.
Nel mio vivere, che ormai volge al tramonto, sono tanti e continuati i pensieri di fronte alla grandezza di Dio: trovato, lasciato e ritrovato più volte. Ora da uomo maturo gli giro attorno dal basso; spedisco segnali senza voce e contenuto di parole; mi sento guidato alle spalle e mai pressato; nei momenti di solitudine spingo me stesso più in alto possibile, per poi riprendere le incombenze consuete della quotidianità, il riprodursi di mille azioni, il volgersi e avvolgersi delle ore.
Mi rendo conto che nulla, di quanto sperimentato nell’arco di un giorno e poi nel buio della notte, va esente dalla presenza discreta di Dio. Non me lo sento addosso e neanche avverto cosa possa pensare Lui di me, di questo piccolo uomo confuso, sovrapposto, pericolante. Insisto a fidarmi della Sua sopportazione. Non sono un gran frequentatore di chiese e sagrestie, anzi non lo sono affatto. Cerco di mimetizzarmi. E’ un discorso tra me e Lui e a volte mi par di vederlo mentre tiene il mento sul palmo della mano. Lo dico così per dire: non riesco a immaginare il sembiante di Dio, così lo sistemo come fisionomia a mio modo. Certo, non avrà mai la faccia del “santone” di Lavina e già questo è più che confortante. Però mi accorgo di non sapere nulla. Sono un naufrago nell’oceano della vita aggrappato alla scialuppa del mio credere e di volerlo preservare e crescere questo mio credere, per come i trasalimenti della vita, il toccare con mano quello che mi sembra inalienabile hanno provveduto a insegnarmi.
Tutto è stato fatica, salti del cuore e tumulti dell’anima. Per questo le campane della chiesa del mio paese parlano. Parlano anche per quelli che si credono “arcangeli” e imbrogliano e confondono il crimine con la fede. Parlano per quelli che hanno fatto finta di non vedere, per quelli che hanno girato lo sguardo dall’altra parte, per quelli che ancora più colpevolmente hanno approfittato di questo turpe e vergognoso baratto per altri fini, soprattutto politici stando alle carte degli inquirenti, per quelli che dovrebbero alzare la voce e restano silenti.
Ormai la barba è regolata a dovere, se ne vede appena un cenno. La mente torna a quelle bambine violate, alle madri ignare e a quelle compiacenti, a tutto quel verminaio che, se dovesse trovare riscontri, è cosa peggiore della mafia e del terrorismo.
Sento forte lo smarrimento della pochezza. Sono affranto e stordito.  Mi ritrovo a pregare a fil di labbra rivolgendomi all’Invisibile e anche questa volta lo faccio a modo mio.

 

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