Immigrati siamo noi


| Salvo Reitano |

Immobile su una sedia, ore ventuno, salone congressi di un noto hotel sul lungomare, il direttore Daniele Lo Porto e la brava collega Katya Maugeri a moderare l’incontro, le file tutte piene di facce, sorseggio l’amico e scrittore Carlo Barbieri venuto fin qui per presentare il suo ultimo libro: “La difesa del bufalo”. Vedo muoversi sotto le parole rotonde la sua faccia da icona e scintillare le sue lenti. Ci sono ancora occhiali che scintillano di passione civile e può succedere anche, una sera di stelle ricamate nel blu del cielo catanese, in quest’Italia appannata.
Carlo Barbieri è un uomo colto, conoscitore del mondo, capace di mettere in circolo spunti e propositi: sul terrorismo islamico, sulla sua Palermo, sul fenomeno dell’immigrazione. Lo ascolto rapito, risulto consolato sulla sedia, sono già le ventidue, altro che televisione. Il ristoro deriva dalle buone notizie sul divenire di certe dinamiche e in quella  risposta che lo scrittore suggerisce all’inizio del libro: “..perché la vita è più forte di tutto”.
E’ un romanzo bellissimo che si legge tutto d’un fiato. Il protagonista, come i precedenti è il commissario Francesco Mancuso che questa volta è chiamato ad affrontare un caso senza precedenti: sventare un attentato di matrice islamista ad opera di un giovane foreign fighter, tunisino di seconda generazione, tornato a Palermo, dove la famiglia viveva da decenni, per farsi saltare in aria al grido di Allah akbar. Il giovane aspirante suicida è uno dei tanti immigrati vissuti nell’indigenza che, tuttavia, non si considera estraneo al contesto che lo ha accolto. Non svelo nient’altro per non rovinare a ognuno di voi il gusto della lettura. Una cosa vorrei aggiungere: Barbieri non si limita a raccontare una storia ma vuole consegnare al lettore una morale che lievita, si gonfia di motivazioni, s’incinge di coraggio e di fiducia nell’uomo perché, anche chi appare un barbaro disposto ad un atto terroristico efferato è capace di ritrovare una dimensione umana.
Il personaggio tunisino del libro e l’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis, che ci informa che in Italia l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% dei nostri connazionali, mi spingono a un ragionamento più ampio.
I Paesi sono sempre diversi dal loro volto. È il contenuto dei Paesi che va accertato, il fluire del sangue nel buio delle forme.
Paura? Ma perché questa paura? Scagli la prima pietra chi non ha mai avuto nell’albero genealogico parenti immigrati. Certi comportamenti mi fanno pensare all’antica favola del lupo cattivo che accusava l’innocente agnellino di intorbidirgli l’acqua del ruscello a cui si abbeveravano entrambi: se non sei emigrato tu, è emigrato tuo padre, e se tuo padre non ha dovuto cambiare nazione è perché tuo nonno, prima di lui, non poté far altro che andarsene, con le valige di cartone legate strette con una vecchia  corda e pochi spiccioli nascosti nel cuoio della cintura, in cerca di quel futuro che la sua terra gli negava.
Molti meridionali hanno attraversato l’Atlantico per raggiungere l’altra sponda, la terra promessa nel continente americano dove si diceva che cominciasse il paradiso. Centinaia di migliaia di nostri connazionali  hanno dovuto assoggettarsi, nella cosiddetta colta e civile Europa al di là dei Pirenei, a condizioni di lavoro infami e salari indegni. “Vietato entrare ai cani e agli italiani”, recitavano i cartelli nei locali della Svizzera francese e tedesca. Quelli che sono riusciti a sopportare le violenze di sempre e le nuove privazioni, i sopravvissuti, disorientati in mezzo a società che li disprezzavano e umiliavano, smarriti fra lingue che non riuscivano a comprendere, un po’ alla volta hanno costruito, con rinunce e sacrifici quasi eroici, banconota su banconota, centesimo su centesimo, il futuro dei propri figli e delle generazioni a venire.
Alcuni di questi uomini e di queste donne, non hanno perso né voluto perdere la memoria del tempo in cui dovettero patire tutte le angherie del lavoro mal pagato e tutte le amarezze dell’isolamento sociale.
Inchiniamoci dinanzi a loro, che hanno avuto la capacità di preservare il rispetto che dovevano al proprio passato. Purtroppo, tanti altri, e sono i più, hanno tagliato i ponti che li legavano a quei periodi tristi. Si vergognano di essere stati ignoranti, poveri, a volte miserabili, si comportano, insomma, come se una vita decente, per loro, fosse iniziata veramente solo il giorno felicissimo in cui hanno potuto comprarsi la prima “automobile tedesca” da mostrare ai parenti nei ritorni per le ferie estive. Sono quelli che saranno sempre pronti a trattare con la stessa crudeltà e lo stesso disprezzo gli emigranti che attraversano quest’altro mare, un po’ meno largo e più profondo, che è il Mediterraneo, dove gli annegati abbondano e sono pastura per i pesci, se la marea e il vento non hanno preferito spingerli sulla spiaggia, fin quando non arrivano la Guardia costiera e la Croce Rossa a recuperare i cadaveri. I sopravvissuti dei nuovi naufragi, quelli che hanno toccato terra e non sono stati espulsi, avranno ad attenderli l’eterno calvario dello sfruttamento, dell’intolleranza, del razzismo, dell’odio per la pelle, del sospetto, della mortificazione morale e sociale.
Come i nostri immigrati del secolo scorso. Così quello che prima era stato sfruttato, deriso, odiato, e ha perso la memoria di esserlo stato, sfrutterà, deriderà, odierà. Quello che è stato disprezzato, e finge di averlo dimenticato, raffinerà il proprio disprezzo. Quello che ieri hanno mortificato oggi mortificherà con maggiore e più chirurgico rancore. Ed eccoli pronti a scagliare pietre, tutti insieme, contro chi arriva su questa sponda del Mediterraneo, come se loro o i genitori, o i nonni, non fossero stati mai emigrati, come se non avessero mai sofferto per la fame e la disperazione, per l’angoscia e la paura. Come se i nostri figli, i figli di questa terra, anno 2017, non fossero costretti a loro volta, ancora una volta come già accaduto ai nostri avi, ad emigrare per trovare lavoro e costruire un futuro.
Torno casa che è mezzanotte inoltrata, gli altri dormono, devo aprire adagio la finestra per respirare un po’. Il buio è greve. Dal cuscino vedo la lampada della strada, appena al di là c’è la chiesa, a lato il Palazzo di città, poco oltre la scuola.
La Sicilia dorme come una nave da carico avviata verso un porto che non si sa, vele sgonfie, mare scuro, forza niente. Ripeto a me stesso: immigrati siamo noi.

 

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