In attesa di giudizio

Giuseppe Condorelli

CATANIA. Il Giudizio e la Giustizia: il primo a incombere sulla scena col simbolo della sua potenza – ermellini come divinità mute e terribili – l’altra, ai suoi piedi – in forma di fanciulla bendata e discinta – che si aggira tra le umane contingenze.

In una ambientefortemente simbolico che raggruma in sé tutto il senso dello spettacolo si dispiegano, in un insolito atto unico, sorta di dittico drammaturgico, “E’ una commedia? E’ una tragedia?” di Thomas Bernharde “In attesa di giudizio”, che Roberto Andò (anche nei panni di regista)ha tratto da “Il mistero del processo” di Salvatore Satta e che lo Stabile etneo ha presentato sui legni del Verga.

Senza sipario, ex abrupto,in un lucore quasi catacombale i testi di Bernhard e Andò riflettono, con storie apparentemente lontane, anche sul rapporto fortissimo che lega il Teatro e la Legge, anzi: che li interseca facendo diventare l’uno figura dell’altro. Nella prima, il protagonista, un uomo nei panni di donna – cui dona dolorosa levità l’interpretazione di Filippo Luna – ricostruisce le tracce di un fatto criminale, mai sopito, di cui si è macchiato; rammenta la sua prigionia ma rimane ancora dilaniato da un senso di colpa impossibile da cancellare: nessun altro “giudizio” sarà mai in grado di farlo, perché “il mondo non è solo un’unica giurisprudenza, ma una galera” e il tribunale peggiore è quello che si agita dentro di lui (e di noi tutti). Ed il suo verdetto è continuo, infinito.

La vita dunque come teatro; il teatro come la vita: carcere o luogo di libertà, il limen è labile, incertissimo. Formalità dell’erogazione del Diritto e della Pena e loro incolmabile lontananza dallo scorrere dell’esistenza che si sottrae – naturaliter – ad ogni forma giuridica. Nell’altro quadro, sostenuto da una voce narrante che alterna la prima con la terza persona, si incardina il tentativo del protagonista – un Giudice (Fausto Russo Alessi dona ulteriore profondità e passione al tormento del  personaggio) – di circoscrivere teoricamente essenza e motivi del Processo, di razionalizzarlo, di farne “trattato” insieme alla vita e alle sue irriducibili manifestazioni. Suo malgrado è però costretto a procedere per dilemmi: la teorizzazione astratta del Giudizio contro l’imprendibile dato reale.

Così, poco a poco, i simulacri della realtà (che oscilla tra Pirandello e Kafka) si svelano anche sulla scena: l’epifania dell’umana violenza e della dialettica vittima-carnefice si incarna in micro-installazioni – omicidio, pedofilia, femminicidio, terrorismo – anche in una sorta di danza macabra, evocata dalla tangibile incapacità del protagonista di sondare la Giustizia la quale, anzi, per tutta la durata dello spettacolo è solo una vox inarticolata, disturbante (se non fosse per l’eccezione lieve dell’Hallelujah di Cohen) insieme al sinistro crepitio delle intercettazioni.

E non è soltanto cronaca dell’elaborazione stessa della scrittura teorica ad essere narrata ed esibita sulle scene ma tutto il “sistema” del Processo nella sua aberrante fenomenologia burocratica ed espropriante, col penoso arrancare della “ratio” del Legislatore di fronte alla realtà: e non è certo un caso che gli “attori” di quel sistema – avvocato, giudice e pubblico ministero – dalle loro altezze recitino in evidentissimo playback (una scelta registica assai appropriata) perché la loro essenza è anonima e sovrapponibile, dunque immutabile. Il senso tragico e dolente dell’inadeguatezza del “sistema giustizia” e l’incommensurabile distanza dalla Verità culminano nelle figure di Pilato e del Cristo – dunque del Processo per eccellenza – le colonne d’ercole su cui naufraga disperatamente e definitivamente il tentativo del protagonista. Anche la trascinante, allucinata, messa in scena “dellospiacevole e cupo dramma” del perturbante “Gorilla” di De Andrè – irrora lo spettacolo di vampate espressionistiche che si alternano a momenti più grevi in uno spettacolo che è in fondo una profonda riflessione di Filosofia del Diritto in forma drammaturgica e nella quale una sterminata sequela di ombre – Vittime? Carnefici? – o la loro pantomima, attende, invano, una improbabile requie.

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