lavori in corso


| Salvo Reitano |

Il lettore comprenderà, ne sono certo, se gli dico di aver attraversato l’inverno a guado, smemorandomi di tutto che fosse cronaca dei giorni pubblici e confidando nel volgere, peraltro lentissimo, del tempo solare che spinge verso la primavera: canta il gallo nel giardino del vicino e dunque è giorno; si rimarca nel crepuscolo la luna e, allora, viene radunandosi la notte.

Dovrei scrivere questa nota in forma di “lettera al direttore”. In ogni caso non vincerei l’imbarazzo. Per la prima volta in tanti anni di lavoro giornalistico mi sono sottratto a un compito. Invitato a far partire questa rubrica, con l’uscita del giornale, mi sono dilungato a tal punto che solo oggi vede la luce. Non è che mi sono fermato. I “lavori in corso” (anticipazioni, brani, estratti di ricordi personali, richiami a libri e romanzi che troveranno spazio ogni domenica in questo piccolo scrigno che vuole essere la nostra in terza pagina), sono andati avanti lo stesso. Ho solo tentennato, riluttante e per questo provo un po’ di disagio. Avrei potuto lo stesso consegnare cinque o dieci cartelle. Ci vuole niente a scriverle. Molte sono conservate negli anfratti della mia memoria. Ma per pudore e rispetto ho preferito non farlo. Un lavoro va svolto bene e a me non piacciono le cose raffazzonate. Sarebbe stato una sorta di baratto per eccesso di doverismo.

Comandatemi cinque o trenta articoli, di qualunque specie, dalla cronaca al necrologio, dall’inchiesta all’intervista con un personaggio anche scomodo, dal calcio al tiro al piattello, però abbiate pietà del mio “lavoro in corso” che finisce in mano ai fedelissimi, ai complici e pertanto non deve costituire un azzardo. Cerco di processarmi per questo eccesso di ritrosia forse arcaica: in fondo con questi elzeviri sono un “narratore di storie”, amo il risultato concluso, non il suo ectoplasma e ne sono geloso.

Per dirla breve: mi piace fare come i cuochi, che non vogliono estranei chini ad annusare cosa bolle sotto il coperchio in cucina. Quando il “pezzo” sarà finito non me ne importerà molto, lo so. Lo spedisco nella mail del direttore e lui sa cosa fare. Inoltre sono “storie” che coinvolgono non solo me stesso ma troppe persone vere, riconoscibili e qualche volta pure famose: non posso offrirle in pasto scegliendone brandelli. Rigiro questa frittata, e so che è vera solo in parte: il mio “lavoro in corso” è per me, in ogni caso, una fatica pazza, che si regge solo se sa di poter contare su tutta la mia adesione e partecipazione segreta. Ogni narratore di storie è anche il “palo”, oltreché l’autore, di ciò che scrive, è anche la sentinella della vicenda che si sta materializzando in lettere e parole. E’ l’ingegnere in punta di matita col progetto in mano ma anche l’umile manovale, cazzuola e malta, che acconcia l’ultimo mattone.

E finché questo mattone non ha trovato posto il «lavoro in corso» è ipotesi, sfida, labirinto, un filo bilioso da rimasticare al riparo da sguardi indiscreti.

Ho troppa esperienza di pagine scritte, stracciare e riscritte anche mille volte, in bene e in male, per tacermi o per eludermi. Scrivere è far da spia a se stessi, è una forma di denuncia e di aggressione che per acquistare autorità deve presentarsi come opera conclusa. Ognuno degli elzeviri, scritti o appena tentati, mi hanno invecchiato di anni: se faccio due conti mi sento già un centenario.

Eppure, il “lavoro in corso”, che si sviluppa con disposizioni virulente, con la superbia d’una linfa indomabile, sembra ridarti freschezza, ti obbliga ad osare, faticare, organizzare. Rimette in gioco ciò che sei, oggi, cancellando ciò che sei stato, ieri. Basta pensare e ricordare il grande Elio Vittorini: inciampava continuamente, nei suoi lavori, piagato dall’attualità. Diceva: “Leggo della guerra in Corea e non riesco più a lavorare”. Ecco una verità mostruosa: chi racconta storie vorrebbe che il pianeta, tutti gli uomini e persino le bestie, si fermassero, per consentirgli di costruire la sua “storia”.

Per queste ragioni devo correre, in segreto, al mio “lavoro in corso”. Ora che gli anni che restano sono sicuramente meno di quelli già vissuti, ho il terrore di morire avendo uno scritto non finito tra le mani mentre sarebbe una bella fortuna esalare l’ultimo respiro col cassetto vuoto e il computer spento. Mi scuso dunque, con il mio direttore, il mio editore e gli affezionati lettori, per la ritrosia e per averla fatta così lunga. Spero che gli amici capiscano, accettino, non interroghino. Sto camminando sul filo come fanno i clown nel circo, naturalmente senza rete sotto. Dalla prossima domenica si ricomincia. Oggi resto imprigionato nella ragnatela dei pensieri. Per me è una gioiosa condanna. Per questo, da queste pagine, oso chiedere a tutti voi: perdono e misericordia.

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