Mille giorni di Sanremo e di noi


 
 
 
Concetto Ferrarotto

Sanremo è l’allegria di una festa di paese, l’Italia delle trattorie e degli amici riuniti intorno a un tavolo: gli  si farebbe un torto a giudicarlo con severità da piglio intellettuale. Stare lì a criticarlo sarebbe come disdegnare la festa del Santo patrono, perché

Sanremo è un rito identitario

Un mito in sé, con le sue maschere, i suoi simboli che nel tempo hanno segnato il mutare del gusto nazionale, da Nilla Pizzi a Nina Zilli. Pure l’Ariston non è un teatro qualsiasi, è un maestoso museo:  le gigantografie di Nicola Di Bari , l’elenco di tutti i vincitori, i marmi rigorosamente anni ’60 ancora lucidi e colorati come si usava in quegli anni.  Chiunque abbia avuto l’occasione di esserci avverte comunque un’emozione, sa di trovarsi in un luogo che è il contenitore pop del nostro Paese: il teatro greco di noi contemporanei.

Diciamoci la verità, le canzoni sono state quasi sempre un pretesto, ad interessarci è lo spettacolo, i suoi costumi, la rappresentazione dell’insieme. E se di spettacolo bisogna parlare, questo del 2018 è diverso. Semplice, gentile e con voglia di stare insieme. Così ha detto Biagio Antonacci  e così è in effetti  il festival  diretto da un Baglioni in stile colloquiale, amichevole, quasi dimesso. Vabbè, è anche un po’ agè, pure lentuccio nei tempi tecnici del suo direttore artistico che non incalza anzi rallenta. Ma abbiamo un simpatico Favino che prova a fare il mattatore, ispirandosi al grande Walter Chiari. C’è Michelle, controllata come la migliore Carrà ma più disponibile al gioco. Certo,

non puoi trovarci fra i concorrenti una nuova Mina

eppure c’è comunque una migliore qualità tecnica nelle canzoni rispetto agli ultimi anni. Chi si esibisce sa finalmente cantare con garbo, non grida. Il tutto accompagnato da un’orchestra favolosa come sempre.

Un festival che con un salto culturale arriva là dove non si era spinto nemmeno il nostro SuperPippo. La prima novità è l’assenza di vallette e valletti. Sono scomparse le belle statuine che l’era berlusconiana aveva elevato da contorno a emblema dello spettacolo, finisce un voyeurismo stanco e sfilacciato che si è trascinato per più di trent’anni, dagli ’80 fino a ieri. Non c’è quella presunzione dell’apparire tutti ricchi e magnaccioni. Poi, si è dato un colpo di spugna alla superbia dei talent show con quei loro fulminei  successi,  facili a crearsi e rapidissimi a sprofondare. Per anni abbiamo subito la De Filippi negare ogni diritto di cittadinanza a chi non fosse inscatolato nella TV. Sembra quasi che con questo festival l’Italia abbia rimesso i piedi per terra, che voglia ricominciare a camminare, a ripartire da una fiduciosa serietà . E a dialogare. Proprio Baglioni fa da collante, la sua carriera di cantante affermato è una mano tesa tra chi gareggia e gli artisti ospiti, il passaggio è fluido, senza strappi stilistici. Alla fine ci si gode con naturalezza un Vecchioni che dichiara il suo omaggio a Dalla, De Gregori e De Andrè, o i tanti omaggi canori al sound degli anni migliori, da Endrigo a Rino Gaetano, passando per Battisti, la Martini e tutti gli altri, senza offesa per nessuno: momenti che ci hanno magicamente riconciliato con la nostra storia musicale e le sue tante anime. Che quasi quasi viene voglia di cantare, anzi di Volare.

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