Natale in corso


Salvo Reitano

Dirigo il passo verso casa in un pomeriggio di luci levigate. E’ il giorno dopo l’Immacolata Concezione e mi va di camminare solo, in silenzio, seguendo il filo dei pensieri. Certe volte non c’è come appartarsi per sentirsi meglio precisati.
Non sono mai stato capace di evadere compiutamente, in presenza di altri, e lasciare che lo sguardo colga appena la presenza, anche suadente, di cose e persone.
Tutto è sempre milizia del vivere, pretesto di messa a punto, colloquio silenzioso con le occasioni. Il corso dei giorni che vanno verso il Natale si dipana e non mi riesce di corrisponderlo senza la costante intensità della partecipazione: mi servono risposte, conferme e slanci di orizzonti.
Sento la vita crescere e ravviso nel profondo di me, ascoltando le vibrazioni del cuore, l’impegno, talora dolente, della consapevolezza.
Avvisto la mia immagine riflessa nella porta a vetri del bar all’angolo della strada e, in qualche modo, mi saluto: non sono più un ragazzo carico di adrenalina e nemmeno un giovane esuberante di sogni nel cassetto, il procedere è lento, la figura posata. Mi corre l’obbligo di avere almeno capito la trama di essere vivo in un insieme complesso, che non ha nulla di preciso, certo e facilmente definibile.
E allora, dico, beato me che ho finito per frequentare, durante questa settimana fatta di un po’ d’autunno e poco inverno, le case di campagna di amici dediti agli alberi e alle belle colture, rosse di arance e gialle di limoni, nei distesi silenzi dei meriggi ombrosi ora che il sole precipita prima oltre la curva dell’orizzonte e un pizzico di tenera malinconia punge il cuore.

Intorno all’albero e al presepe

Tutto è buio sotto le stelle. Solo un chiaro di luna a rischiarare quando si radunano i tavoli. I ragazzi e le ragazze apparecchiano e mani di donne e di mamme accendono candele rosse sulle tovaglie natalizie profumate di perline di naftalina al vago odore di pino silvestre.
Viene avanti la notte così, anche la sera dell’Immacolata di questo Natale in corso. Noi tutti intorno all’albero e al presepe, i volti riverberati dalle candele in tremolo, i cani fuori accucciati a cerchio e i gatti sornioni sul tetto.
Il richiamo nascosto del meglio e le voci di ciascuno di noi che avesse un racconto di vita da sgomitolare adagio senza fare rumore.
Mi sembra di stare al limite estremo di una vallata a precipizio sulla spianata sottostante, dove la coincidenza dei sospiri d’aria sono un riverbero e recano la delicatezza di serate ineguali.
Sono ore di scambio, di dialoghi riposati, fotogrammi retrospettivi di un film girato con le nude parole che l’occasione dello stare insieme suscita e sa allineare.
Il Natale ha da essere così, l’ho sempre voluto e saputo e non mi sono mai tirato indietro: dirsi, mettersi a parte, offrire se stessi, accertare il fremito e la consapevolezza degli altri, proporre il libero mercato dei buoni propositi, portarli a frutto.
Tra un bicchiere di rosso e una risata mi ritrovo in mano una chitarra. Non suono da tanto tempo e con le dita intorpidite mi metto a cantare, alla buona, melodie natalizie d’antico rango. La voce si diffonde nella notte. Le corde della chitarra vibrano. Tutti intorno gli amici, vuoi per il vino vuoi per l’approssimativo giro di accordi, si accendono di guance. Mi sembra di sconfinare verso l’inafferrabile per cui solo la nostra coscienza serba una risposta precisa.
C’è ancora tempo per un altro sorriso. La chitarra approda. Io sospiro, felice di gioia.

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