Nel nome di tutte le madri

Giuseppe Condorelli

CATANIA. Una madre – come pietra paziente – veglia il corpo senza vita di una figlia, agghindata da sposa. Il suo è un monologo muto, uniche compagne la disperazione e la morte. Con “Madri di Guerra”, di cui firma testo e regia, Antonella Caldarella percorre una tappa ulteriore nel suo tragitto drammaturgico “civile” ispirandosi all’assassinio nel 2001, nei pressi di Kabul, della giornalista catanese Maria Grazia Cutuli per riflettere sul dolore che accomuna tante madri e tante donne. L’atto unico – prodotto dal Teatro Argentum Potabile – è andato in scena nello spazio performativo “Roots” per la rassegna “Underground  Rivers”.

Eppure nell’abisso del dolore materno quel rapporto non si interrompe: la figlia le risponde. Comincia così un dialogo serrato lungo il quale entrambe espongono le loro ragioni: alla prima, che le rimprovera di aver cercato la morte, Maria Grazia contrappone il dovere, in qualità di inviata di guerra, di “raccontare la verità” e dunque anche la possibilità di poter morire, pur “senza rimpianti”.

Davanti all’intransigenza dell’una – la disperata difesa del proprio ruolo di madre che quella morte le ha negato – l’altra contrappone la necessità irrinunciabile della denuncia che non può essere aggirata nemmeno dall’amore di un madre (Daniela Fisichella ne regge il ruolo con toccante e profondissima capacità di immedesimazione).

È uno conflitto durissimo ma anche un incontro amorevole, fisico, intessuto di odori, di ricordi, di complicità. Insieme, lungo un contraltare di brevi ma intensi flashback, ripercorrono gli eventi apparentemente minimi e quotidiani che hanno costruito e sostanziato le loro esistenze: il pianto e l’allegria, i crucci e le gioie, tutto un mondo privato su cui si stagliano però – improvvise e terribili – altre memorie, altri ricordi: quelli di tante “madri di guerra” che la figlia, memore delle sue inchieste, rievoca.

Alle immagini “private” si innestano allora quelle di chi grida dai corridoi della Storia, delle vittime: la morte ad ogni angolo, le violenze, la disperazione, i lutti. Sono crepe che si aprono nell’atmosfera intima, familiare della scena sorrette pure dal dirompente commento musicale della chitarra dal vivo di Andrea Cable. Sarà proprio Maria Grazia (Valeria La Bua confermandosi attrice più che matura ne esprime tutta la forza e il coraggio) a svelare, proprio attraverso le sofferenze della madre, quelle di tante altre donne distrutte dalla guerra ma allo stesso tempo saprà testimoniarne anche il coraggio, la volontà di non sottomettersi al dolore e di continuare, comunque, a sperare.

Nella stanza bianca che è la scena – ma che diventa metaforicamente il mondo intero – le due , insieme giocano, in una parentesi di felicità, il gioco ormai impossibile della nonna e della figlia fino al rovesciamento dei ruoli, alla vestizione simbolica della madre: segno di una dolorosa accettazione nel silenzio che ricompone sì la morte e la vita ma lascia sospese tutte le domande di una mater addolorata sulle note di una ninnananna sigillata da un bacio.

(ph: Cristina Iacona)

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