Una barba a Canalicchio


 
 
| Salvo Reitano |

Nell’aria intrisa di azzurro e di tutte le sfumature di giallo che regala il sole novembrino, da quando mio padre è una fotografia in una cornice d’argento vado spesso a trovare mia madre a Canalicchio, il quartiere di Catania dove sono nato.
Ieri mi andava di fare due passi e così, camminando, mi sono ritrovato davanti al salone da barba dove tanti anni fa, seduto su un cavalluccio di legno, i miei mi portarono per la prima volta a tagliare i capelli. E siccome non avevo fretta e la barba era lunga decisi di entrare.
Ho sempre pensato che il mio posto è il mondo ma so bene che le mie radici stanno qui, in questo quartiere di periferia, perché quello che ho vissuto in questi luoghi è stato sufficiente a riempire una vita intera. Ciò che è accaduto dopo sono solo contorni.
“Di passaggio da queste parti?”, domandò il barbiere arrotolando la tovaglietta bianca tra collo e camicia, “non mi sembra, la sua, una faccia conosciuta, non è di qui”.  Rimasi in silenzio facendo finta di non averlo sentito. “Un po’ di crema prima del sapone?. Assentii con un piccolo movimento della testa. E lui incalzando, “è qui per lavoro?. “Sono di qui, dissi, ma da quasi trent’anni abito altrove, un po’ più lontano”. “Non sono qui per lavoro”. “Avvocato?”. “No”. “Medico?”. “No”. “Impiegato?”. “No”.§
Il barbiere ammutolì, non trovando risposta alle sue domande e prese a picchettare la faccia con la crema prima di richiamare a voce il ragazzo che già si affrettava con il sapone e il pennello. “Svelto, svelto”, con un tono che tentava d’essere all’altezza della sala appena rimessa a nuovo e lucida di specchi. Si capiva lontano un miglio che era uno “svelto, svelto” inutile, ma solo di divisione per lui e per me che in maniera ostinata gli rifiutavo il dialogo.
“Non ho fretta, dissi, può fare con calma”. Prese a insaponarmi mettendo la mano sinistra sotto la destra che reggeva il pennello. Con maestria lo faceva roteare sul viso, dal collo fino alle basette, provvedendo a posizionare la schiuma sul mento e sopra le labbra aiutandosi con l’indice.
Amava mostrare una premura più attenta della sua arte ed era già il preludio alla parola che si insinuava tra le corde vocali e si faceva domanda. “Militare?” chiese ancora. “Questo poi…”. Stavo per scoppiare a ridere e dovetti fermargli la mano. Ero precipitato nelle sue grinfie. Me ne resi conto e ritornai serio immobile e riflessivo.
“Non credevo di offenderla”, disse facendo volteggiare il pennello a mezz’aria e girando lo sguardo verso la poltrona del vicino che, ammiccando con lo sguardo, sembrò per un momento rassicurarlo.
Prima che ripartisse con un’altra raffica di domande lo bruciai sul tempo con il più classico dei contropiede. “Ho la faccia da militare?” chiesi. “Picchì chi facci hannu?” disse in dialetto, quasi perdendo le staffe e con esse il filo del discorso che non riusciva a condurre. “La faccia che hanno”, risposi secco. “Ma questa è una barba o un interrogatorio?” .
Sorrise con un leggero brontolio, digrignando i denti e facendo volteggiare ancora il pennello mostrando, quasi con provocazione, tutta la sua bravura.
“‘Na minchiata”, disse e non disse, per non apparire troppo volgare, avvicinando la sua faccia alla mia. “Magari sarebbe il caso di insistere con la schiuma”, risposi con una calma da tonto. Lo avevo spiazzato di nuovo. Gli sfuggivo e lui non si capacitava e non riusciva a darsi ragione della mia riluttanza. Si allontanò verso il lavello per sciacquare le mani e asciugarle con una tovaglia prima di attaccare con il rasoio.
Faceva finta di non guardarmi, ma mi guardava. Anzi, diciamo che mi fissava. Uno dei garzoni lo chiamò di là, oltre gli specchi. Mentre si allontanava mi resi conto che si sentiva liberato da un impegno e inconsapevolmente mi liberava. Io approfittai per riannodare il filo di quel discorso che era durato il tempo di poche battute ma che ad entrambi sembrava lunghissimo e affaticato. Una sorta di sogno, senza sonno.
Qualcuno, a questo punto, si chiederà perché  tanta reticenza, perché non mi ero presentato. Semplice: non mi aveva dato il tempo, incalzando con le sue domande. O forse, a un certo punto, avevo deciso inconsciamente di sottrarmi perché quel preambolo non mi piaceva. Forse il barbiere voleva in cuor suo che fossi di passaggio a Canalicchio, magari che non fossi nemmeno Catanese per trovarmi in quel salone restaurato che invogliava ad entrare anche un forestiero.
C’è da aggiungere che insieme al restauro della bottega aveva messo a nuovo anche la lingua. Le parole gli uscivano con rinnovata chiarezza, qualche volta sbagliate, nell’intercalare del dialetto, ma forti di preziosa certezza.
Il suo problema, più che il lusingarmi cerimonioso che non aveva fatto presa, era il modo con cui avrebbe voluto pressare i giovani garzoni per farsi indovinare i pensieri che aveva in testa e che non doveva pronunciare se non a gesti o con un impercettibile movimento degli occhi. Ecco, “svelto svelto”. Il ragazzo che corre, lo serve e poi resta imbambolato a guardargli le mani come fa un giovane tirocinante con un chirurgo affermato, consapevole di infastidirlo per gli ordini che dovrà ricevere e che non riesce a indovinare.
Perché avrei dovuto dirgli chi ero? Forse per lo stesso motivo per cui non riuscivo a disinteressarmene, ormai nella rete della sua verbale provocazione. Catanese, canalicchioto come lui, tornavo alle mie origini. Dovevo corrispondere o non corrispondere a un’ipotesi a un sospetto. Farmi indovinare, presentarmi o nascondermi. O tutte e tre le cose insieme. Il giudice e l’imputato. “ ‘Na minchiata”. Carriera e reato nella stessa persona.
In qualche maniera, nel lungo assedio di domande senza risposta o con risposte blande da parte mia, il barbiere vi aveva fatto cenno. Nella lentezza preziosa e ambigua della sua cortesia e nell’oscurità scontrosa di qualche parola volgare, tipica delle nostre parti che lui teneva a freno, il barbiere sembrava riconoscersi la certezza di avere rimesso a nuovo, insieme ai locali, anche le sue origini. Ma correva sempre il pericolo di tornarvi per “ ‘Na minchiata”.
Tornò verso di me con fare svelto, tirò fuori il rasoio dal taschino del camice e saggiandone il filo con il pollice, prima di dargli il verso sul palmo della mano aperta mi fissava pronto per una nuova domanda. “Mi raccomando il contropelo”. Assentì con la testa, staccando con decisione la prima parte di barba partendo deciso dalle basette. Lo vidi disfatto, sconvolto e incerto. Pensai che sarebbe bastato un forestiero per ridargli voce. E io forestiero non ero. E con un modo di manifestarmi che mai avrebbe sospettato, gli dissi cogliendolo di sorpresa: “Dalle nostre parti di belle facce ce ne sono, hai voglia se ce ne sono”. Non capì subito e non poteva capire. Allontanando il rasoio dal mio viso restò a fissarmi sulla bocca quelle parole che mai si sarebbe aspettato.
“Abbiamo tutti facce da qualcuno”, cercai di spiegargli con crescente imbarazzo, “eppure quasi sempre non siamo nessuno o non siamo quelli di quelle facce”. “Non ne abbiamo colpa. Con una faccia da finanziere vendiamo al mercato nero, con una faccia da delinquente abbiamo in tasca il tesserino di poliziotto, e con la faccia del carabiniere andiamo in giro a fare scippi e rapine. Sono le nostre teste, no?. Che ci piaccia o no nessuno ce le può togliere, eppure spesso sembra che le abbiamo prese in prestito da qualcuno. Lei che ne vede tante, tra una barba e un taglio di capelli, ci aveva mai pensato?”.
Non so se, nel vociare dei clienti in attesa che parlavano di tutto tranne che di politica e la cosa mi sembrò strana il giorno prima dalle elezioni, dissi o pensai di dire altro. Il barbiere aveva capito, ma restava sospeso nel dubbio aspettando che qualcuno dei presenti formulasse per lui la risposta.
Il vicino con la barba ormai rasa si limitò a fermare la mano del giovane apprendista che gli spruzzava sul volto una pioggia di colonia.
Un anziano signore, elegante e sopra gli ottanta, si avvicinò alle mie spalle. “E lei che faccia crede di avere?” mi chiese facendo l’occhiolino al barbiere. “La faccia che ho”, dissi, “siete voi che dovete indovinare”.
“Tu hai la faccia di tuo padre”, rispose passando al tu e dandomi un’affettuosa pacca sulla spalla, “la buonanima di tuo padre, quel galantuomo”. Poi avvicinandosi all’orecchio del barbiere gli sussurrò il mio nome di “figlio”.
In un attimo mi vidi circondato da un affetto che fino a qualche minuto prima non avrei nemmeno lontanamente immaginato. Un vecchietto in fondo al salone si ricordò persino di mio nonno Turi. Ci ritrovammo tutti galantuomini quando noi presenti in quel salone, per una serie di circostanze, avevamo temuto di non esserlo. Non sapevo come congedarmi. E fu un’impresa convincere il barbiere a prendere i soldi per la barba. Strette di mano e abbracci e la promessa che sarei tornato presto.
Poco oltre la soglia, prima di avviarmi, mi girai per un ultimo saluto felice e orgoglioso di mostrare a tutti la faccia di mio padre.

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