Abuso di potere e questione morale

Salvo Reitano

Deputati e senatori, ministri e presidenti, sindaci e assessori, magistrati e giornalisti, generali e ammiragli, sociologi e politologi, medici e banchieri, tassinari e portinai, camerieri e parrucchieri, operai e contadini, tutto un Paese di mormoratori hanno fatto della “questione morale” l’oggetto principe di ogni conversazione. Ognuno dice la sua e a suo modo, ma non mi sembra che si siano fatti passi avanti per capire di cosa si tratta.
Del resto non c’è giorno, delle Alpi al punto più lontano della Sicilia, che la cosiddetta “questione morale” non venga derisa e calpestata. Scandali e corruttele  la pongono al centro del dibattito e sembra si voglia fare intendere che anche gli uomini politici e quelli che gli gravitano attorno debbono essere persone oneste nel senso più compiuto del termine. Persone che non rubano, non dicono il falso, non corrompono e non si fanno corrompere. Insomma, persone che non commettono nessuno di quei reati puniti dal codice penale in quanto giudicate azioni che le persone perbene non dovrebbero compiere.
“Ognuno afferrava quello che poteva, strappava, rubava. Tutto si divise in parti e quelli dilaniavano lo Stato che stava tra loro. Lo Stato veniva governato dall’arbitrio di pochi. Avevano in mano il tesoro, le province, le cariche, le glorie e i trionfi. Gli altri cittadini erano oppressi dalla povertà, oberati dal servizio nelle legioni. I capi spartivano le prede con pochi, mentre le persone venivano cacciate dalle loro terre se, per disgrazia, queste erano desiderate da un potente vicino”.  A leggere le Historiae di Sallustio, che in queste poche righe riassume la situazione di Roma del I secolo avanti Cristo, ci si accorge che nulla da allora è cambiato in quanto a corruzione malaffare e ladrocinio, al punto che nel 2012 si rese necessaria l’istituzione dell’A.N.AC. (Autorità Nazionale Anti Corruzione) per arginare un fenomeno sempre più insostenibile.
Ci sono stati momenti nella vita di questo Paese che qualcuno ha perfino invocato un “governo degli onesti”. Ma solo a parole. Avrebbero dovuto affidare la cosa pubblica a Franco il fornaio, Michele il fabbro, Pippo il muratore, Pietro il contadino. Impossibile. Che la “questione morale” non debba riguardare solo i signori che ho appena elencato è fuori discussione. Non si riesce a comprendere, infatti, perché chi fa politica sempre più spesso tende a sottrarsi agli obblighi cui è sottoposto l’operaio, l’artigiano, il professionista. Non dovrebbe esistere una morale pubblica diversa dalla morale privata. Anzi, a volere essere pignoli l’uomo pubblico dovrebbe essere più scrupoloso nel rispetto degli obblighi morali per il semplice motivo che le sue infrazioni sono più dannose alla comunità che è chiamato a governare di quelle dell’uomo comune.
Certo, il rapporto tra politica e morale risulta molto più aggrovigliato, che machiavellicamente il fine giustifica i mezzi, che uno Stato non si governa pregando Dio o confidando nello “stellone”. Giratela e rivoltatela come vi pare ma la cosiddetta “ragion di stato” significa soltanto questo: che il politico si viene a trovare, qualche volta in via del tutto eccezionale, mettiamo in grassetto e bene in evidenza “eccezionale”, a dover prendere decisioni che riguardano il bene comune, sottolineo ancora in grassetto e bene in evidenza “il bene comune”, decisioni che non possono essere prese se non violando le regole morali. In altre parole: ciò che giustifica un mezzo moralmente discutibile è solo e soltanto la grandezza del fine e la sua eccezionalità.
Lo stesso Machiavelli dice che “i mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati” quando il Principe riesce a “vincere” e a “mantenere lo Stato”.
Ora, senza offesa nei confronti di alcuno, quale sia la grandezza per cui un numero sempre maggiore di uomini politici e pubblici amministratori commettono atti disonesti, abusando del loro potere,  e offendono la dirittura morale di chi spesso non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, non è dato capire. Sospetto, e credo di non essere il solo, che il dilagare della corruzione e del malaffare sia dovuto principalmente alla conservazione del potere personale, oltre al facile illecito arricchimento. Niente a che vedere con la “ragion di Stato”.
A questo punto anche la massima del Machiavelli risulta discutibile. Discutibile e insostenibile quando il fine che dovrebbe giustificare i mezzi è esso stesso ingiustificabile. Mi rendo conto che sono ovvietà. Mi perdoni il lettore ma il problema sulla “questione morale” non si esaurisce qui.
Senza filosofeggiare possiamo distinguere la morale generale, che regola le azioni di tutti gli uomini, dalla morale cui è sottoposto chi appartiene ad una determinata categoria professionale. Così c’è l’etica del medico, quella del giudice, quella dell’imprenditore, del maestro, del giornalista e via elencando. Tutti chiamati al rispetto di obblighi e regole deontologiche che ne disciplinano i comportamenti. Tra queste c’è anche l’etica dell’uomo politico. Bene, la funzione sociale di chi fa politica è quella di perseguire l’interesse della collettività. C’è una distinzione che corre lungo tutta la storia del pensiero politico: la distinzione fra buongoverno e malgoverno, fondata sulla distinzione fra il governante che persegue il bene comune e quello che persegue l’interesse personale. Pertanto il politico ha, oltre ai doveri di tutti,  anche i doveri che gli spettano in quanto politico e sono strettamente connessi alla sua attività che corre su i due paralleli che marcatamente distinguono il bene comune da quello individuale.
La funzione dell’uomo politico è il buongoverno come la funzione del medico e quella di curare bene, dell’insegnante quella di insegnare bene,  del giudice quella di giudicare secondo giustizia,  del giornalista quella raccontare i fatti in maniera veritiera e possiamo continuare per tutte le altre professioni.
Quando sui giornali, in Tv, sui social si pone la “questione morale” con riferimento ai politici non si tratta solo del governo degli onesti nel senso più ampio del termine. Si tratta di uomini che antepongono il governo dello Stato, e dunque di tutti noi, al propio, a quello del partito di appartenenza, del proprio movimento, del proprio “clan”. Si tratta di uomini che rispettano insieme alla morale comune anche quella strettamente legata all’attività che esercitano.
Uno dei maggiori rimproveri che la gente muove alla classe politica è quello di anteporre all’interesse comune quello privato, di approfittare del potere pubblico per accrescere quello personale, di arricchirsi illecitamente e senza alcun ritegno in un delirio di onnipotenza che solo il potere e il denaro rendono possibile. Tutto ciò ci porta a pensare che la “questione morale” è anche una questione politica. Una questione che nessuna autorità anticorruzione, nessun tribunale, nessuna nuova legge elettorale e nessun ritocco o stravolgimento della Costituzione potrà mai risolvere.
Come scrisse diversi decenni fa Norberto Bobbio: “Dai buoni costumi possono nascere buone leggi. Ma non bastano buone leggi a produrre buoni costumi”.

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