Alla fine del tempo

Giuseppe Condorelli

CATANIA – La fascinosa e abbacinante atmosfera bianca della scena di “Alla fine del tempo”, in scena alla Sala “Giuseppe Di Martino”, non rimanda solo alla limpida prosa di Tabucchi  (al cui racconto “Il tempo stringe” è liberamente ispirato lo spettacolo) quanto alla concretizzazione di un non-luogo doloroso e asettico come può essere la stanza di un ospedale; un luogo di transito, sorta di limen tra il mondo dei vivi e quello dei morti e sul quale fluttua il protagonista Enrico, lontano un’altra città, un’altra vita, giunto troppo tardi al capezzale del fratello.

La drammaturgia di Elio Gimbo, che ha pure firmato la regia, orienta la rilettura di Tabucchi verso una deriva più metafisica e concreta ad un tempo: quella stanza è la ricerca di un senso, di una possibilità, di un momentaneo ‘consistere’ nel fuoco di una assenza per eccellenza: quella appunto del fratello morto. E qui il riferimento più ovvio per alcune affinità pare rimandarci, per esempio, al Botho Strauss de “Il tempo e la stanza”.

Perché, almeno a nostro parere, lo spettacolo di Fabbricateatro si condensa sulla sacralità di alcuni momenti fondamentali dell’esistenza: gli inginocchiatoi-poltrone allestiti per la platea accomunano gli spettatori allo stesso sacrificio, alla contemplazione di un tempo “bastante”, di un tempo che possa aprire una ferita dentro il tempo stesso, alla ricerca di risposte che forse non arriveranno mai.

Il colloquio di Enrico col fratello (Cosimo Coltraro lo interpreta declinandone tutta la rabbia, tutto il rimpianto, tutto il rancore, con accorata partecipazione) si configura infatti come ellissi, ennesima occasione mancata (tema carissimo a Tabucchi). Per questo il dialogo col cenere muto s’impenna in un monologo violento e tenero ad un tempo, – sorta di nietzschiano foglio che si “stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via e rivola improvvisamente all’indietro, in grembo all’uomo” – attraversato a volte da una ironia pacata, quasi impalpabile evocata pure dai gesti anonimi, burocratici ed efficienti, dell’infermiera (Sabrina Tellico), simbolo di un altro luogo a cui Enrico, inadeguato e sprovveduto, tenta di sottrarsi nutrendosi e riappropriandosi della memoria sua e del fratello.

Proiettato su quel bianco memoriale e mediterraneo, Enrico ritaglia allora una comune storia di famiglia in una inversione di ruoli che quel tempo inesorabile impone; una storia di soldi che hanno segnato la rovina del padre e incrinato per sempre i rapporti. Tra ricordi e rimorsi – che iniziano allo stesso modo e in fondo coincidono – funge come una sorta di metronomo il ricamo del mandolino di Puccio Castrogiovanni il quale, divinità silente e lontana, misteriosa e sfuggente (anche nel segno di Orfeo), pare richiedere proprio l’obolo della parola: una sorta di “confessione” in cui l’enigma, l’equivoco, l’impossibilità segnano il senso stesso del protagonista e delle sue vicende.

In un gioco di specchi e di rovesci (ancora Tabucchi) ogni rivelazione, ogni occultamento si congelano nell’onirico incontro finale, surreale e metafisico, con la madre (luogo del ritorno per eccellenza): lì dove si accende per un attimo il bagliore di un tramonto che subito si spegne nel buio incipiente del tempo che resta, che non basta mai.

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