"Altolà! Chi và la?" "Un italiano..."

 

 

 

Alfio Franco Vinci

All’età di 16 anni avevo già l’aspetto ed il fisico di un’adulto. Vivendo molto vicino al confine svizzero avevo già, su autorizzazione di mio padre, la carta d’identità valida per l’espatrio che mi consentiva di passare il confine per fare il pieno nella lambretta, comprare le sigarette  (purtroppo fumavo già) e ogni tanto allungare il passo fino a Lugano per andare a corteggiare  “le svizzerotte”, come noi chiamavano le nostre coetanee ticinesi.

Le guardie confinarie elvetiche al valico di Porto Ceresio, nonostante conoscessero tanto me quanto i due amici inseparabili con cui mi spostavo sempre ,erano immancabilmente severe e rigide nella applicazione dei loro regolamenti per l’ingresso in Svizzera. All’età di 17 anni, mio nonno materno che doveva soggiornare in Svizzera per un paio di settimane per motivi di lavoro e di affari, mi chiese di accompagnarlo e, poiché nel suo programma c’erano anche pranzi e cene eleganti, mi regalò il mio primo abito scuro ed io oltre a due cravatte pensai di mettere in valigia un papillon nero. Partimmo in treno da Varese ed attraversammo il confine a Briga. Oltre che i documenti di cui si accontentavano nel Canton Ticino, le guardie confinarie del Cantone dei Grigioni ci fecero aprire tutti i bagagli e, vedendo il mio abito scuro e il cravattino, mi volevano bloccare e rispedire in Italia, supponendo fossi un aspirante immigrato clandestino che voleva entrare in Svizzera per andare a fare il cameriere senza un contratto di lavoro.
L’intervento di mio nonno valse a chiarire la vicenda, anche se, ad ogni buon conto, mi misero un timbro sulla carta d’identità che mi imponeva di uscire dal territorio elvetico entro e non oltre 20 giorni, pena l’arresto. Quel timbro ci creò un certo imbarazzo negli alberghi, ma facemmo buon viso a cattiva sorte.
Dopo 12 anni, ormai sposato, andai con mia moglie, che non parla inglese, a trascorrere 10 giorni nel Regno Unito. All’aeroporto di Gatewick, pur avendo tutti i documenti di viaggio e personali perfettamente in regola, subimmo un interrogatorio individuale assai stringente in ordine ai motivi del nostro viaggio, ai nostri mezzi di sostentamento e ad una serie di ulteriori notizie inimmaginabile in Italia. Mia moglie non so cosa rispose (eravamo in file separate), ma anche a lei venne concesso di entrare. Dopo qualche anno fu la volta della Francia e poi dell’Austria, dove il copione era sostanzialmente identico. Consideravo, e considero tuttora, perfettamente legittimo, prudente e corretto, che per entrare in “casa altrui”, ci si faccia riconoscere.
Questa lunga premessa per dire: ma non ci vergognano di appartenere ad un Paese in cui, il ministro dell’ Interno viene indagato, peraltro da una Procura forse incompetente per territorio, per aver tentato di impedire, avvalendosi di leggi nazionali e comunitarie, l’ingresso in Italia di 170 clandestini? Ma non ci vergognano di calpestare l’esito del voto delle ultime elezioni, che questo mandato ha conferito agli attuali governanti? Ma non ci vergognano ad alimentare, con principi umanitari nobilissimi in astratto, la rivalsa di quelli che, dopo averci portato alla rovina, hanno perso clamorosamente le elezioni a tutti i livelli di consultazione, ed ora sono scossi da delirium tremens da astinenza di potere?
Fra non molto compirò 69 anni: vorrei poter festeggiare senza il magone di non poter rinunciare ad una nazionalità che non sento più mia.

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