di Saro Faraci
ISPICA – Oltre gli stereotipi. Non è vero che il vino sia argomento per soli uomini. Anzi, a tavola le donne fanno spesso una gran bella figura, dimostrando competenza, buon gusto e capacità di apprezzare le sfumature territoriali di un ottimo vino. Oltre gli stereotipi. Non è vero che produzione ed imbottigliamento del vino siano temi esclusivamente per uomini. Anche in questo caso, infatti sta crescendo il numero delle donne che trasferiscono nelle vigne la loro professionalità, mettendola al servizio dell’innovazione di prodotto e di un nuovo approccio ai mercati.
Clementina Padova, 25 anni, di Ispica ne è un bell’esempio. E ci racconta subito la sua storia: «Circa un anno dopo aver finito gli studi universitari in Economia Aziendale all’Università di Catania prima e all’Università di Parma poi, con specialistica in Trade and Consumer Marketing, ho deciso di ritornare in Sicilia e dedicarmi alla realtà vinicola e aziendale avviata nel ’94 da mio padre. Sapevo fin da subito che sarei diventata il suo braccio destro nella comunicazione del suo lavoro che oggi è anche il mio: l’unica cosa che ancora mi sfuggiva era quanto avrei inconsapevolmente imparato sul vino e sulla viticoltura grazie a lui, stando al suo fianco giorno dopo giorno»
-Ma una ragazza così giovane si occupa pure d’altro nella vita, oltre alla vitivinicoltura?
«Certamente. Sono un’attenta amante della scrittura in tutte le sue forme e della fotografia che per me è ricordo perché riesce a dire tutto ciò che a parole noi comuni mortali non riusciamo. Sono letteralmente ossessionata dai profumi, penso di aver sviluppato una dipendenza tanto che quando una persona si avvicina per salutarmi so riconoscere subito che profumo (brand e nome) ha addosso. Mi piace la musica jazz, Pino Daniele e ultimamente anche l’indie italiano. Ogni tanto strimpello il piano»
– Di padre in figlia. Suo padre Massimo è titolare di Riofavara. Cosa ha preso dal carattere di suo papà e in cosa invece Lei si ritiene diversa?
«Partiamo con il dire che io credo in quella cosa che viene chiamata “astrologia” e sull’influenza che il sole e la luna hanno sulle persone; casualmente il nostro logo è proprio quello del sole e della luna» (nel frattempo ride, n.d.r.)»
– E quindi con questa premessa cosa mi vuol dire?
«Mio padre e io siamo nati sotto il segno dei Gemelli quindi siamo uguali per tutte le cose in cui siamo diversi e molto spesso questo ci pone in un faccia a faccia continuo che è occasione di scontro ma anche di crescita. Nel rapporto padre-figlia abbiamo imparato e stiamo ancora imparando l’uno dall’altro: io l’esperienza dei suoi anni e lui la freschezza dei miei e questo ci ha permesso di trovare il giusto equilibrio, facendoci capire che spesso e volentieri da idee inizialmente contrastanti nascono bellissime opportunità di crescita. E poi mio padre è il responsabile della maggior parte delle mie passioni odierne, tra cui proprio il vino »
-Ci racconti un po’ di Riofavara, dov’è ubicata e di cosa si occupa oltre alla produzione e all’imbottigliamento di vino. C’è una tradizione di famiglia che va oltre al fondatore, cioè a Massimo Padova?
«Riofavara (tutto unito, lo sottolineo perché spesso lo scrivono staccato) si trova nella Val di Noto o Vallo di Noto, a seconda di come piace più chiamarlo. Sì, ha una tradizione di famiglia che risale a ben prima del ’94. Infatti, nasciamo nel 1920 come azienda agricola e solo dopo diventiamo vitivinicola. Riofavara si è sempre tramandata di padre in figlio, di nonno in nipote; adesso c’è anche una piccola componente femminile che in questo mondo non è per niente scontata, ma tutto oggi mi fa capire di aver fatto la scelta giusta: il clima caldo, l’area che sa di salsedine, il suolo bianco e calcareo (che sembra quasi borotalco) dove gli alberi di mandorlo, ulivo e carrubo hanno creato quell’atmosfera intorno a me in grado di darmi la percezione che è qui la mia casa al ritorno da un viaggio».
– Dalle sue parole sembra che ci sia un corollario della risposta alla mia domanda.
«Sì, lo ha colto bene. Volevo solo aggiungere che sicuramente ho avuto un’opportunità in più rispetto a chiunque altro: quella di potere (nel senso di avere la possibilità) di mettere radici profonde. Ma per farlo ci vuole amore oltre che passione, la passione brucia in fretta »
– In che modo il vino si lega al territorio?
«Il vino è territorio e quindi si lega ad esso per una forza di cose insite nella sua natura. Il vino è un prodotto vivo. Ogni bottiglia ha una storia a sé ma allo stesso tempo il vino è il risultato di una terra, è figlio di una madre di cui noi ci prendiamo cura. Per sillogismo oserei dire che il vino siamo noi: noi che lavoriamo la terra, noi che ci prepariamo alla vendemmia con trepidazione e aspettiamo questo momento per un intero anno»
– Nel caso vostro, dato che parliamo del territorio naturalmente vocato per la produzione del Nero d’Avola, come si fa a caratterizzare ancora di più un vitigno che è stato esportato e dunque impiantato anche in altri territori?
«Il Nero d’Avola ha una storia lunga, lunghissima. Per tanto tempo è stato esportato e impiantato in altri territori perché ha una capacità di adattamento molto simile ai vitigni cosiddetti internazionali, così avendo la fortuna di trovarci nella zona nativa del Nero d’Avola abbiamo abbracciato come filosofia aziendale quella di produrre vini solo ed esclusivamente territoriali, motivo per cui tutti i nostri vini rossi sono Nero d’Avola in purezza. Questo ci ha permesso di riuscire in un lavoro che definirei “sottile” in grado di esaltare la vera essenza di questo vitigno»
– Quali sono i vini di punta della produzione di Riofavara?
«Non ci sono vini che definirei di punta. Sicuramente lo Sciavè rappresenta la nostra DOC di Nero d’Avola di maggiore complessità ma anche lo Spaccaforno con il suo tannino tagliente non ha niente da invidiargli; questo per quanto riguarda i rossi. Per i bianchi il Metodo Classico sicuramente è eleganza estrema. Tuttavia mio padre ha dato recentemente vita a un nuovo progetto, forse più una sfida che ci ha posto nelle condizioni di scommettere ancora una volta su quello che facciamo e sul nostro lavoro, e questa sfida ha come oggetto il recupero di vitigni antichi, in Francia li chiamano vitigni dimenticati »
– Cosa avete sperimentato?
«Nsajar infatti deriva dal nostro siciliano antico, significa provare. Per questo la sfida. Da questa idea sono state innestate delle barbatelle sia “a tavolino” che sul campo. Il risultato è stato lo Nsajar che definirei il nostro cru. La prima annata è stata il 2019, imbottigliata ed etichettata appena qualche giorno fa »
– Dove si vendono i vostri vini preferibilmente, cioè in quali canali?
«I canali di vendita a cui facciamo riferimento sono quelli dell’HO.RE.CA., a mio avviso i migliori per chi vuole saperne sempre un pelino in più di vino, perché è un canale dove il personale di servizio con cui si interfaccia il cliente sa offrire quel quid in più che da soli è più difficile avere. Ma anche l’online prende piede, tempo al tempo»
-Perchè in questo momento è altissimo il gradimento per i vini rosati e per tutto ciò che sono “bollicine”?
«Per i rosati la risposta è una e una sola. Sono stati maltrattati per tanto tempo e considerati i vini degli indecisi, le vie di mezzo o, spesso e volentieri ancora, i vini delle donne. Invece a quanto ho visto e imparato fare un rosato tecnico non è per niente facile. Penso sia una questione di preconcetti a volte quando si parla di vino, come in tutto il resto delle cose. Mi sono impuntata tantissimo affinché la nostra azienda aggiungesse alle sue referenze quella del rosato, lo considero una mia “creazione”»
– Come lo avete prodotto?
«Anche qui abbiamo utilizzato un Nero d’Avola vinificato in bianco. Con il rosato questo vitigno parla un linguaggio diverso, è capace di saper esprimere delicatezza e non solo potenza, come nei rossi»
– E le bollicine?
«Per le bollicine invece, penso che piacciano per la loro facile beva. Stimolano la salivazione e piacciono, piacciono tanto. Anche se questi vini vanno capiti»
– Lei, da giovane laureata e specializzata in discipline aziendali, di cosa si occupa in azienda?
«Tutto ciò che riguarda il marketing e la comunicazione sia dal punto di vista B2B che B2C, sono due facce della stessa medaglia che devono parlarsi e volersi bene. È come una sorta di matrimonio una sorta di “voucher della fiducia” come qualcuno insegna. E in questa relazione il B2C dice al B2B che dice all’azienda “ io ti compro se tu mi dici chi sei mi sai raccontare la tua storia per benino, magari davanti a un camino”… a volte è difficile però… eh»
– Recentemente, grazie al Suo contributo, sono state introdotte nuove bottiglie, molto curate anche nel packaging. Quanto è importante secondo Lei comunicare bene attraverso un’etichetta, anche dal punto di vista grafico?
«Tantissimo. Spesso noi produttori non siamo seduti a tavola con chi beve i nostri prodotti quindi abbiamo bisogno di parlare in un altro modo “latente” direi io e quel modo è proprio l’etichetta! Nelle nuove bottiglie il terroir è forte, dirompente, parla chiaro insomma»
– E i social quanto sono importanti nel comunicare il vino?
«Tanto quanto l’etichetta direi, solo che ancora non se ne è capita la potenza di questi strumenti che, se ben utilizzati, sanno dialogare con il proprio pubblico al meglio; talvolta coinvolgendolo nelle attività giornaliere dell’impresa stessa. I social ad oggi sono il vero e unico punto di contatto in tempo reale tra cliente e azienda e sono vantaggiosi per entrambi »
– Una domanda “giovane” ad una persona “giovane”. Ma perchè il vino va alla grande presso le giovani generazioni e non è più solo la modalità di bere preferita dagli adulti?
« Penso che la maggiore internazionalizzazione abbia reso, nel tempo, tutto più accessibile anche il gusto. I ristoranti non sono più solo per adulti ma hanno aperto le porte anche ai giovani che sono diventati buoni intenditori e hanno un palato molto più affinato rispetto a 50 anni fa. Si viaggia di più, si esce di più e si assaggia di più. Perché? C’è più curiosità nei gusti e più voglia di conoscere»
– Credo che voglia concludere questa intervista, dicendomi qualcosa che a molto a che fare con gli studi universitari che ha intrapreso.
«Sì, ha colto bene. Le aggiungo che consumatore di oggi è anche molto più informato rispetto a prima e ha un ruolo ben preciso all’interno del suo percorso di customer journey tanto che oggi si parla di una figura a metà tra produttore e consumatore, il “prosumer”. Questo è stato possibile proprio grazie alle asimmetrie informative che tra domanda e offerta si sono via via appiattite consentendo ai consumatori l’acquisto di prodotti qualitativamente migliori da parte delle aziende che sono diventate sempre più trasparenti e coerenti con la loro brand identity»
