Carcere e dipendenze: "Non ci possono essere tabù di fronte alla garanzia del diritto alla salute"

Carcere e dipendenze: "Non ci possono essere tabù di fronte alla garanzia del diritto alla salute"

di Katya Maugeri

Il rapporto fra carcere e dipendenze è molto stretto. Nell’immaginario collettivo l’istituto penitenziario è identificato come un luogo severo, privo di ogni ospitalità, di futuro o cambiamento.

Uno spazio sterile in cui l’unico scopo è far espiare la pena attraverso un percorso repressivo, punitivo. Il primo significato, dall’etimologia stessa della parola carcere, dal latino carcer -ĕris, fu «recinto». Successivamente «prigione», intesa come costrizione e luogo nel quale rinchiudere soggetti privati della libertà personale. In questo luogo così lontano dal sentire comune, però, esistono realtà difficili che dovremmo imparare a conoscere.

Storie che sono legate a una salute precaria e a delle fragilità emotive impossibili da ignorare. Qual è la funzione del carcere nei confronti del detenuto tossicodipendente? Ne abbiamo discusso con Hassan Bassi, segretario nazionale Ass. Forum Droghe, Osservatore Antigone e socio fondatore de “La Società della Ragione Onlus”

Secondo l’ultimo Rapporto Antigone, quanti sono i detenuti tossicodipendenti nelle carceri italiane?

«Nell’ultimo rapporto gli osservatori segnalano il 14% dei detenuti presenti negli Istituti visitati in carico ai servizi per le dipendenze. Da altre fonti sappiamo che i detenuti con “problemi droga-correlati” erano quasi 17.000 ovvero il 28% di tutti i detenuti alla fine del 2019.  Non tutti però possono essere definiti e certificati come “dipendenti”. Di certo almeno più del 30% dei detenuti sono stati accusati o condannati per violazione della normativa sulle droghe. Un dato enorme di gran lunga fra i più alti d’Europa».

Gli ultimi eventi dell’8 marzo hanno messo in luce un disagio e una fragilità che non possono essere ignorati…

«La rivolta nelle carceri dimostra che le condizioni delle carceri italiane continuano ad essere al limite. Sovraffollate e con condizioni strutturali quasi sempre molto compromesse di cui risentono in particolar modo le persone più fragili e vulnerabili, fra cui i tossicodipendenti. L’assalto alle infermerie è un classico delle rivolte nelle carceri.

Questa volta però ha avuto un esito tragico, se i risultati delle autopsie lo confermeranno, quasi tutti i detenuti morti durante o subito dopo le rivolte sono stati vittime di overdose da metadone e farmaci.

Una morte inusuale nelle carceri. Solitamente chi cerca queste sostanze le conosce ed evita di consumarne una quantità tale da mettere a rischio la propria vita. Rimane il fatto che la vita carceraria ed un buon stato di salute non sono un binomio vincente.

La stessa condizione di vita in reclusione in spazi stretti e sovraffollati è causa di malesseri e diffusione di malattie. Si pensi anche solo al livello di disturbi psichici che si evidenziano negli istituti di pena, di cui sono indici inequivocabili gli altissimi consumi di antidepressivi».

Quali sono le dipendenze più frequenti?

«Non è facile rispondere a questa domanda. I dati relativi alle persone con problemi di dipendenza che si rivolgono ai servizi sono spesso parziali, tanto che anche nell’annuale relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, lo stesso dipartimento politiche antidroga avvisa che i dati non sono completi. Ancora più difficile distinguere quelli relativi alle persone con dipendenza patologica in carcere.

Abbiamo i dati di alcune regioni come il Lazio che ci dice che la sostanza primaria per chi è in carico ai Servizi per le dipendenze nelle carceri laziali è la cocaina. Subito seguita dall’eroina. Mentre in Toscana la maggior parte di coloro che hanno avuto una certificazione di dipendenza patologica in carcere nel 2018 erano consumatori di oppiodi (eroina) e in seconda battuta di cocaina ed alcol. Rimane il fatto che le sostanze che hanno effetti maggiori di dipendenza sono l’eroina e l’alcol».

Esiste un mercato clandestino di sostanze stupefacenti nelle carceri italiane?

«Le testimonianze raccolte durante diverse ricerche certificano che negli istituti è attivo un mercato clandestino delle sostanze. Anche per questo sarebbe assolutamente importante attivare anche dentro le carceri italiane le azioni di riduzione del danno e dei rischi secondo quanto raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Come ad esempio la disponibilità di materiali sterili per il consumo di sostanze. Non ci possono essere tabù di fronte alla garanzia del diritto alla salute».

Quali sono le carenze del sistema di assistenza ai tossicodipendenti nelle carceri? E con quali strumenti sarebbe efficace migliorarlo?

«I servizi per le dipendenze sono stati la prima area di intervento sanitario che con la riforma è stata trasferita dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Questo dovrebbe garantire una parità di trattamento fra dentro e fuori, ma non sempre è così semplice. Le difficoltà sono soprattutto legate alla particolarità della situazione del carcere con tutti i limiti che possiamo immaginare nella costruzione di programmi terapeutici di lungo respiro che si scontrano con le imposizioni securitarie degli istituti. Abbiamo notato che ci sono Istituti dove i servizi per le dipendenze non seguono gli stessi protocolli fra dentro e fuori, proponendo programmi terapeutici molto più rigidi e con una minore personalizzazione.

Alcuni operatori sanitari hanno dichiarato che non vengono mai utilizzati farmaci sostitutivi degli oppiacei che hanno un ruolo importante e universalmente riconosciuto per ridurre di danni associati alla dipendenza. Tutto questo è contrario a qualsiasi protocollo sanitario contemporaneo.

Ci sono anche istituti dove le persone con dipendenze in cura sono escluse dalle attività lavorative interne, con una decisione ingiustificata e controproducente, oltre che discriminante, e che aumenta il disagio della vita carceraria proprio per i più vulnerabili.

Per migliorare le cose, si dovrebbe promuovere al massimo la concessione delle pene alternative, per le persone con dipendenze, ma non solo, dico io.

La Magistratura stessa è lenta e colpevolmente reticente nell’applicare le misure deflattive che la norma permette. La detenzione dimostra tutti i suoi limiti, sia nella possibilità di ridurre la recidiva che in quella di garantire un buon livello di salute fisica e psichica per le persone ristrette.

In particolare per le dipendenze si dovrebbero garantire le risorse economiche per una presa in carico da parte dei servizi del territorio pubblici e del privato accreditato di tutti i casi di dipendenza patologica in una sinergica collaborazione fra mondo della giustizia e socio sanitario. Invece le risorse necessarie per le pene alternative sono poche, quando è ormai dimostrato che sono il miglior investimento sociale e finanziario possibile.

Un’attenzione particolare andrebbe poi posta alle esigenze degli stranieri. Con un investimento sui mediatori culturali per superare le difficoltà di comunicazione con i servizi sanitari».

Qual è la percezione che la gente ha delle persone con dipendenze?

«Purtroppo se c è una categoria che è stigmatizzata è quella delle persone con dipendenze. Anche a causa di una martellante propaganda le persone con dipendenze sono spesso additate come incapaci di prendere decisioni autonome, mentre la possibilità di uscire dalle dipendenze patologiche risiede proprio nella valorizzazione delle competenze e delle risorse delle persone. Spesso poi il semplice uso di sostanze stupefacenti è associato al termine tossicodipendenza, mentre solo una minima parte delle persone che usano sostanze sviluppano problemi patologici da uso».

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