Carcere e minori: la scrittura autobiografica radice del cambiamento

Carcere e minori: la scrittura autobiografica radice del cambiamento

 

di Katya Maugeri

ACIREALE – Che valore hanno le parole? Quelle scritte, che peso hanno? Sintesi spesso di riflessioni complicate difficili da esternare in un luogo come il carcere che anestetizza la volontà di emozionarsi, allontana la speranza di guardare al futuro. Soprattutto se dietro quelle sbarre ci sono dei minori che – nonostante i loro errori – vorrebbero trovare un motivo valido per cambiare vita. All’interno dell’istituto penale per minorenni di Acireale, dal 2009 una scuola permanente di scrittura autobiografica ha ridato voce e parola a chi dentro ha solo urla e rimpianti.

Questo progetto culturale, curato dall’educatore Girolamo Monaco, è centrato sulla pratica dello scrivere, fermare le parole e stimolare il pensiero riflessivo. Una scrittura collettiva che si confronta, che valorizza il testo individuale elaborando, successivamente, un prodotto condiviso. “Noi siamo come gli artigiani – ci racconta Girolamo Monaco – che hanno imparato il mestiere da sé, a poco a poco, a contatto diretto con la materia prima e con il desiderio di trasformarla in un bene comune. Noi siamo educatori che lavorano con le parole, perché le parole sono gli strumenti per accedere ai sentimenti e preparano all’azione, ai cambiamenti. Il metodo di produzione autobiografica prevede la proposta di un tema relativo alla memoria personale sul quale ogni giovane scrive un testo in risposta a domande dirette destinate a stimolare una riflessione. “Così, nel particolare contesto nel quale lavoriamo che è il carcere minorile, cerchiamo di evolvere dall’atto verbale impulsivo e irrazionale – causa di gran parte degli errori umani, sia quelli a valenza penale che quelli minimi che inquinano il benessere sociale – in parole riflessive, strumento  di un pensiero personale e autonomo, elemento di costruzione di un racconto di sé che legge il passato e prepara il futuro.  In questo modo le parole hanno un peso, perché tutte le parole descrivono vissuti e impegni”.

Un testo collettivo, quindi, dal quale emerge la memoria collettiva che diventa ipotesi di lavoro e progettualità individuale di tipo educativo, “con queste premesse, ci accorgiamo come dalle storie condivise, cioè raccontate dentro un gruppo che ascolta, emerge il fondo comune del dolore che genera il disagio. Ogni parola racconta un bisogno, una mancanza, un desiderio. E il desiderio diventa per noi la radice del cambiamento”. Si cerca, quindi, di umanizzare il loro percorso carcerario fornendo gli strumenti adatti per raggiungere una maturità necessaria per il cambiamento e il reinserimento nella società nonostante le resistenze, “la parola, prima pensata e poi scritta, diventa per noi pesante e costruttiva come una pietra, come un mattone: diventa realtà oggettivata e capace di fissare un punto fermo esistenziale. Il soggetto che si racconta declina in prima persona la capacità evolutiva del suo sé, finalmente protagonista, prima del suo stesso raccontare, poi della sua storia e della sua vita, infine del suo futuro. È questa la crescita umana, anche di chi non sa scrivere, chi non è andato a scuola, chi non parla neppure l’italiano. La scrittura autobiografica abilita la persona all’esercizio della libertà fondamentale: quella del pensiero, la libertà della riflessione e della scelta. Le resistenze? Sono tutte dentro al potere eversivo e pericoloso (direi quasi con termine ormai desueto, rivoluzionario) che la parola cosciente in sé contiene”.

Uno degli ultimi lavori realizzati dal laboratorio è “Il peso delle Parole” nel quale emerge l’essenza del dolore causato alle madri, ai propri figli, la solitudine di ritrovarsi in una zattera galleggiante nel bel mezzo di una tempesta. Raccontano dei sogni della speranza come “luce che non si spegne mai e dice di non cadere”, sono pagine che danno vita a pensieri ben delineati. Ci sono i “pesi del passato che ancora opprimono, e curvano le spalle, come uno zaino pieno di pietre”, ma c’è spazio anche per le parole accoglienti e colme di vita come quel “grazie. È la parola che mi viene da dire quando provo gioia e mi sento amato, cercato, desiderato, importante per qualcuno, aspettato e cercato”. La volontà di cambiare, di perdonarsi e farsi perdonare da una società che li teme e li tiene a debita distanza, offuscata da un sentimento di rancore e incapace di guardare l’uomo, superando i pregiudizi. “La gente avrà sempre pregiudizi, come i caproni. Ma almeno chi legge le nostre storie potrà avere la possibilità di pensare e sentire il dolore e la fatica che accomuna tutti gli esseri umani”.

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