Caro Paolo, tu che magistrato sei stato?

Caro Paolo, tu che magistrato sei stato?

di Katya Maugeri

«I magistrati mi hanno condannato. Tu lo eri. E che magistrato sei stato? Per questo ti hanno ammazzato, perché non eri corrotto», fogli bianchi in cui scrivere delle riflessioni rivolte a Paolo Borsellino nel giorno in cui si ricorda la strage di via D’Amelio dove perse la vita insieme alla sua scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina e Claudio Traina. 

Memoria è anche questa: ricordare e farlo attraverso stimoli, dibattiti, raccontando a dei giovani cos’è stato il Maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino a Cosa nostra, tra il 1986 e il 1987, e perché è importante non smettere di portare avanti le idee di coloro che hanno creduto in una società libera dalla mafia e sono morti. Uccisi, barbaramente. La memoria è anche questa: chiedere ad alcuni giovani detenuti dell’istituto penale per minorenni di Acireale di scrivere una lettera a Paolo Borsellino, durante il laboratorio permanente di scrittura autobiografica insieme agli educatori Girolamo Monaco e Raffaele Cutrone.

«Caro Paolo, io ho conosciuto la tua storia in Sicilia, dentro questo carcere. Sei stato ucciso il 19 luglio del 1992 perché hai scelto di cercare la verità, condannare la mafia e salvare così vite umane. Oggi, ventisette anni dopo, mi dispiace deluderti, ma salvare vite umane è diventato un reato. Grazie per l’esempio che hai dato a tutti, Il tuo coraggio è la mia grande forza». Non è stato facile, quei fogli restavano bianchi, alcuni di loro li hanno utilizzati per realizzare aeroplanini, presi da terra e scarabocchiati. Poi, le riflessioni prendevano il sopravvento. «Io penso, caro Paolo, che la tua morte non sia stata vana, perché ha lasciato un segno indelebile di giustizia. Grazie a te lo Stato italiano lotta contro la mafia, ed è per merito tuo se sappiamo cos’è questa mafia che ci rende schiavi e deboli, impotenti e sconfitti. Tu, invece, hai vinto perché l’hai riconosciuta e le tue idee, insieme a quelle di Giovanni Falcone, sono diventate strade da seguire. Io, fuori da queste sbarre, vorrò una vita diversa: l’esperienza del carcere mi è servita per capire tante cose. Chi sbaglia paga. Io sto pagando e poi voglio spiccare il volo».

Sono contrastanti le riflessioni e alcuni di loro, non riescono a scrivere ancora di legalità, di giustizia «chi nasce libero non può morire prigioniero, ognuno fa la propria scelta, ed io ho già deciso: voglio la stessa vita di prima», ha il suono della sconfitta per noi che leggiamo, ma ci ricorda che molto c’è da fare per questi giovani che non riescono a trovare un’alternativa. Uomini come Borsellino insegnano a non arrendersi, lui che diceva: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare», come il desiderio dirompente di scegliere – una volta fuori – la strada che porta alla legalità, «come la immagino la vita fuori da qui? Vorrei uscire dal carcere e difendere, aiutare le persone che hanno subito ingiustizia, ma farlo alla luce del sole. Rendermi utile alla società. Vorrei una vita semplice piena di amore e coraggio per affrontare i momenti difficili, vorrei la libertà di essere felice. Perché la vita è una sola e non dura molto».

Siamo abituati a commemorare in modo passivo, distanti dalle emozioni eppure abbiamo sempre qualcosa di forte da condividere «caro Paolo, il giorno in cui sei morto era una caldissima domenica pomeriggio d’estate. Io ero un giovane – scrive l’educatore Raffaele Cutrone – che si stava costruendo il suo futuro e mi trovavo al nord. Quando arrivò la notizia alcune persone residenti in Piemonte mi dissero: “ci dispiace per voi siciliani, ma non vi solleverete mai”, io non sapevo cosa rispondere addirittura mi sono vergognato di essere siciliano, io, senza colpe, mi sono sentito colpevole. Poi, il giorno dopo, lessi sul giornale che tua figlia – nonostante il dolore – si presentò all’università per sostenere il suo esame di laurea già programmato. Lì, mi sono sentito orgoglioso di essere siciliano perché come disse il tuo grande amico e collega, Giovanni Falcone “possono uccidere le persone, ma le idee trovano sempre le gambe sulle quali camminare”. Dopo qualche anno mi sono laureato anche io». Il laboratorio permanente di scrittura, quella mattina, all’istituto penale per minorenni di Acireale ha lasciato in loro molti quesiti, riflessioni, ad alcuni una apparente indifferenza, qualcuno ha sorriso, altri si sono commossi.
La memoria è ricordare l’uomo, non l’eroe, capire come poter agire concretamente e non sulle passerelle, memoria è leggere i loro biglietti stropicciati avvertendo tantissime parole non dette, ed altre inaspettate. Quelle scritte da un ragazzino messo in disparte con l’aria apparentemente distratta, e invece: «vecchio mio, la giustizia è ancora mossa dalle tue gesta. Oggi, commossa, rammenta il tuo nome onorando la tua morte gloriosa».

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