Al Tondo Gioeni strani incontri notturni, seconda parte


 
 
 
Luigi Costantino

CATANIA – La sera successiva al quel fantastico incontro con il Bernini, supponendo che ancora una volta qualcosa di magico potesse accadere, prima di rientrare mi recai nuovamente al Tondo Gioeni. Non mi sbagliavo, di fatti, al solito posto sotto i portici del palazzo che ospita la biblioteca comunale, in un silenzio surreale, come se il tempo e qualunque altra attività fosse ‘’congelata’’ c’era qualcuno. Lo vidi seduto, con il capo cinto fra le rugose mani, chino su se stesso e intuì il suo stato di sgomento. Fui colpito da un bianco cappello a larghe tese ed un bastone in legno che giacevano per terra innanzi a lui.
I suoi folti capelli bianchi tirati indietro, radi sulla fronte, risplendevano al chiaro di luna. Si girò sentendomi arrivare e mi fissò, lo guardai e analizzai i tratti somatici del suo volto.
Grandi occhi, infossati nelle cavità orbitali con grosse borse inferiori, un naso regolare delimitato dalle due grandi pieghe che scendevano giù contornando le sottili labbra sino al mento.
In abito scuro, spiccava al colletto della candita camicia un cravattino nero, un ibrido tra un fiocco ed un papillon. Non ebbi alcun dubbio, l’incontro della precedente sera aveva spalancato in me la consapevolezza che può accadere qualsiasi cosa soprattutto se il fattore scatenante poteva considerarsi eccezionale. Sicuramente eravamo in presenza di un ‘’Gate’’ che collegava il nostro mondo con il mondo dei più.
Era proprio lui, Frank Lloyd Wright.
Il ricordo dei suoi lavori e della sua filosofia progettuale mi riportò indietro al tempo del periodo universitario, sfiderei qualunque collega o corrente studente in Architettura a poter dire di non essere stato affascinato dal suo grande ingegno. Per lui la progettazione architettonica doveva essere assoluto equilibrio tra ambiente costruito e ciò che lo circoscriveva.
Rivolgendomi a lui con riguardo gli dissi: ‘’Maestro, anche Voi siete qui?’ Perché il silenzio del vostro riposo è stato inquietato ?’’.
“Ascoltami ” – e con voce pacata continuò – : ‘’nel 1957, avevo novant’anni, di fronte a un folto pubblico di giovani pronunziai questo fondamentale concetto: non avremo mai una nostra cultura fino a che non avremo una nostra architettura e l’avremo solo quando sapremo che una buona opera è quella che non ferisce il paesaggio, ma quella che rende il paesaggio più bello di prima».
Dopo di ché fece il gesto di chinarsi per recuperare quanto giaceva ai suoi piedi. Riuscì a precederlo porgendogli cappello e bastone, lo aiutai ad alzarsi. Stette in silenzio qualche istante e ricomponendosi, ben poggiato sul suo bastone, cappello in testa, emanava quasi un’aura magica.
Un ghigno di rabbia, però, traspariva dalla sua espressione e con un veemente gesto brandì il suo bastone verso il bianco del muro che rompeva seppur anche la vecchia ma armonica dissolutezza preesistente.
“Mi fate ridere, voi moderni architetti, mi fate ridere con quello che vi ostinate a chiamare verde verticale. Cosa avete inventato? Nulla, anzi devo dirvi che avete peggiorato una dote che la natura ha sempre avuto. Cosa fa un’edera che si abbarbica su un muro, un glicine che pende da esso, una qualunque altra essenza vegetale? Spontaneamente, ma guidata, rende una superficie gradevole, quasi naturale, organica; un verde verticale che non è un’accozzaglia di essenze disomogenee, di piantine messe li, quasi a caso. E quei poveri alberelli, li sento quasi piangere sembrano condannati a morte a ridosso di un muro che aspettano il colpo fatale.
L’albero è libero, deve respirare, deve avere intorno a se spazio, confinerei tutti voi, spalle al muro, su un cornicione di un grattacielo ad aspettare la morte.
Oggi siete dominati dal denaro, avreste potuto ottenere un miglior risultato con una spesa ragionevole, o magari, spendendo quanto avete impegnato per questo, avreste potuto avere a decoro della città un qualcosa che poteva suscitare armonia e bellezza. L’Architettura con la A maiuscola non esiste più”.
Mi sarei voluto scusare, avrei anche voluto prendere le difese di chi aveva commesso il fatto e non intendendo e volendo comunque essere blasfemo, mi balenarono in mente le parole di perdono pronunciate sul Golgota.
Ma non ebbi il tempo di farlo, in un istante, la sua figura implodendo su se stessa svanì.
Rimase un puntino luminoso di un azzurro abbagliante, che stazionando di fronte me, a mezz’aria solo per qualche secondo, a folle velocità sparì in direzione del cielo

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