Falcone e Borsellino, gli anelli della mafia e Pippo Fava

Falcone e Borsellino, gli anelli della mafia e Pippo Fava

Concetto Ferrarotto

Il grosso anello si muoveva con lentezza regale insieme alla mano che lo esibiva. I miei jeans si appiccicavano di sudore alle gambe e guardavo l’uomo con l’anello. Il caldo di luglio sulla piazza dell’Università di Catania, la testa confusa, gente intorno sconosciuta. Non ci capivo niente ma sentivo che bisognava stare lì. Era il luglio del 1992, il giudice Borsellino e la strage, eravamo scesi in piazza per non piangere da soli. Una donna si avvicina a quell’uomo e gli chiede di fare qualcosa, lui resta indifferente finché non intravede una telecamera ed allora si sveglia d’attenzione con frasi ben recitate per la stampa. Quell’uomo era l’Arcivescovo di Catania: un anello sprecato. Un ruolo sprecato, mentre i preti di frontiera come padre Pino Puglisi mettevano in gioco la propria vita. Nella storia della mafia ci sono tanti anelli, quelli che uniscono poteri occulti, quelli dei baciamano di rispetto, e quelli inutili di chi resta indifferente, attento soltanto a conservare se stesso.

L’indifferenza spesso è complice colpevole della menzogna e la mafia si nutre del camuffamento della sua vera natura. Ci sono verità giudiziarie ma anche quelle a volte mentono, fra depistaggi che dopo un quarto di secolo restano nell’ombra. Per esempio, del primo processo Borsellino soltanto oggi conosciamo le falsità, menzogne non casuali, omissioni di giudici che tradivano altri giudici. Personalmente non credo più nella delega esclusiva al sistema giudiziario per la lotta alla mafia. Non perché non sia utile in assoluto, anzi è condizione necessaria, ma non è sufficiente a risolvere il problema. La funzione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura affronta gli effetti del fenomeno non le sue cause culturali e sociali. Per di più, l’aver delegato alla magistratura ogni attenzione sulla mafia ha avuto i suoi effetti negativi: da una parte l’autoassoluzione della popolazione siciliana dalle proprie responsabilità, dall’altra l’attribuzione di un ruolo quasi sacerdotale, con aura di sacralità, a chi per mestiere è magistrato. Nella nostra Costituzione la Magistratura è uno dei poteri dello Stato e come tale va rispettato nel proprio ruolo che non può straripare oltre i suoi confini. Rispetto ma non venerazione.

Il maxi processo istruito da Falcone e Borsellino fu il punto di arrivo di un percorso non soltanto giudiziario ma anche legislativo e culturale, una presa di coscienza collettiva con le sue radici in quegli anni ‘80 che avevano visto le due grandi città dell’isola martoriate ciascuna da cento omicidi di mafia all’anno, poi la reazione con la “primavera palermitana” dei gesuiti di padre Pintacuda e l’impegno unitario della migliore parte dei grandi partiti dell’epoca, DC e PCI, con la legge Rognoni-La Torre che introdusse il reato di associazione mafiosa, articolo 416bis del codice penale. Il gruppo di comando criminale si chiuse a riccio nella cosiddetta “cupola” e può darsi pure che l’azione antimafia venne in un certo senso non osteggiata da qualcuna delle fazioni perdenti con un sapiente doppiogiochismo forse alle basi del futuro depistaggio processuale: ragione in più per non restare ancorati a una lettura del fenomeno ormai datata.

Proprio agli inizi di quel decennio il giornalista Pippo Fava fondava I Siciliani e venne ucciso. In questi giorni, come ogni anno il 5 gennaio, si ricorderà a Catania l’anniversario dell’omicidio. Potrebbe essere l’occasione per rilanciare la riflessione sul fenomeno mafioso, diverso dalla comune criminalità organizzata. La mafia, pur diffusa nel territorio italiano, in Sicilia riesce a condizionare il funzionamento stesso della società, dell’economia, e il controllo del territorio. C’è quindi una specificità tutta siciliana, un anello di congiunzione che rende più fertile quella criminalità se legata al nostro modo di essere. Bisognerà chiedersi perché il potere mafioso abbia ispirato opere artistiche, film , musiche, e tutta un’estetica che assume i toni epici o nostalgici di un tempo antico e perduto.

Nel libro intervista “Cose di Cosa Nostra” il giudice Giovanni Falcone dichiarò che la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio, un suo sviluppo, ed avrà una sua fine. E’ un’affermazione connotata da razionalismo “illuminista” e costruttivo, per lo più estraneo alla cultura siciliana che non ha mai pienamente vissuto la rivoluzione dei Lumi. Forse la vera sfida di Falcone era proprio nella sua convinzione che la Sicilia avrebbe potuto essere cambiata e la mafia sconfitta, non solo giudiziariamente ma culturalmente. Forse, fu tale forza razionale ad aver impaurito le cosiddette “menti raffinatissime” che si presume abbiano favorito la terribile strage di Capaci e poi l’omicidio Borsellino e poi depistato i processi.

Raffinate nell’immobilismo, nel tenere la Sicilia lontana dai veri processi decisionali, dallo sviluppo dell’economia, dalla progressiva modernizzazione. La Sicilia come “presa a terra” dove scaricare le tensioni del Paese e dove attingere a risorse di mezzi e uomini per gli affari più indicibili. Ogni nazione del mondo ha i suoi nuclei di potere occulto, funzionali ad alimentare e puntellare il potere ufficiale e la ricchezza pulita. Soltanto in Italia, fra tutti paesi sviluppati di cultura democratica, quel nucleo coincide in gran parte con un territorio, quel territorio è la Sicilia. Ciò rende di grande sofferenza la nostra condizione, sempre più misera.

In realtà quelle “menti raffinatissime” oggi sono anche piuttosto arretrate perché ci si poteva permettere un tale lusso finché il mondo restava diviso fra l’occidente capitalista e l’oriente comunista, finché la tecnologia non consentiva un simultaneo commercio mondiale e finché si aveva il pieno controllo delle risorse petrolifere del medio oriente. Ma sono condizioni concluse e sepolte da oltre un ventennio. Infatti la Sicilia soffre più di allora, ha subito una visibile caduta all’indietro e insieme ad essa soffre l’intero Paese.

Non è un complotto ma un anello di congiunzione tra precondizioni culturali e opportunismi vari. Sciascia affermava che a dispetto delle apparenze la cultura siciliana è sempre stata matriarcale. Nella sua essenza antropologica la cultura matriarcale tende all’immobilismo, a trattenere a sé i propri figli, a non lasciarli andare. Vincolata visceralmente alla terra per non cambiare, legata al cordone ombelicale per non emancipare. La parola mafia è un sostantivo femminile: è una delle conseguenze della cultura matriarcale tribale, il suo scopo ultimo è impedire l’emancipazione dal bisogno. E se un popolo non sa rendersi libero è fin troppo facile che altri poteri ne profittino.

Lo sviluppo di un’economia che prescinda progressivamente dalle elargizioni dello Stato centrale sarebbe una delle soluzioni. Ma poiché la nostra borghesia, non tutta ovviamente, è anch’essa intrisa di matriarcato, nel tempo ha sviluppato meglio la capacità di profittare delle prebende pubbliche piuttosto che l’abilità nel fare impresa. Sarebbe utile ribaltare la critica socialista al fenomeno mafioso, tutta concentrata sui problemi delle classi subalterne che costituirebbero la base sociale su cui prolifera la mafia. In origine il problema risiede semmai nella borghesia che pur possedendo i mezzi culturali ed economici per guidare l’emancipazione preferisce il trasformismo inerte.

Quando in Sicilia la destra berlusconiana vinse a mani piene, conquistando 61 seggi su 61, quel blocco politico-territoriale non riuscì in alcun modo a fare lobby nell’interesse della regione di provenienza, non vi riuscì per incapacità culturale. La faccenda mi pare uguale anche oggi con l’en plein dei pentastellati. Quando Pippo Fava scrisse i suoi testi teatrali, le sue analisi della società siciliana, venne rifiutato soprattutto da una parte della borghesia, la più ampia ed influente.

Intimamente amareggiato, egli definì Catania, la sua città, come una bella donna di facili costumi, una donnaccia di cui si è innamorati pur sapendo che ci tradirà. Era la passione adolescenziale dell’uomo che cercava uno sbocco per la felicità. La sua fame di vita intuiva la necessità di un’emancipazione, arrestandosi a contemplare un amore tradito, un anello rifiutato. Una felicità puttana.

1 Comment

  1. Ancora una volta si tira in ballo il giornalista Pippo Fava per accomunarlo a ” mafia e vile servilismo politico “. Quando la volete finire di farvene un paravento per i vostri intrighi malevoli ? PIPPO FAVA e` stato un SIGNOR giornalista amante della verita`a ogni costo . Giro` in lungo e in largo , sempre da solo o sporadicamente da me accompagnato , tutta la SICILIA e mai ebbe il sentore che qualcosa di losco cominciasse a volteggiare intorno a se. Anche sul suo licenziamento dal ” GIORNALE DEL SUD ” si e` fantasticato e non poco . Al contrario fu una risoluzione voluta fortemente ,alla luce del sole , dagli azionisti ” SCUDO CROCIATO ” che rimasero urtati sull’editoriale che FAVA aveva scritto un giorno a favore del SOCIALIMO PURO – e quindi degli azionisti socialisti che partecipavano al finanziamento del giornale – forma politica che lui aveva sposato da sempre . Un’altra pista , sul suo assassinio , porta a far credere a una vendetta politica di un personaggio DC , allora , molto noto in Sicilia per essere stato citato da FAVA durante un incontro nel salotto di ” MAURIZIO COSTANZO SHOW” in televisione . FAVA non fece il nome ma poco avvedutamente cito` la montagna di voti raccolti in quella tornata elettorale : ” Non si possono ottenere 140 mila voti di preferenza – disse ingenuamente – se non si e` in computta con la mafia” . Secondo il mio modesto punto di vista , si deve a questa pesante battuta la morte del giornalista FAVA . Il giorno dopo , quando rientro` in redazione , fra il serio e il faceto gli dissi : AVRESTI FATTO PIU` BELLA FIGURA DICENDO NOME E COGNOME tanto solo lui aveva ottenuto tutti quei voti . Scatto`una bella risata e il tutto fini cosi ; come tutti ormai siete a conoscenza .

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