Commissione carceri ed esecuzione della pena, Sebastiano Ardita: "Per rieducare serve la volontà  del condannato"

Commissione carceri ed esecuzione della pena, Sebastiano Ardita: "Per rieducare serve la volontà  del condannato"

di Katya Maugeri

CATANIA – «La detenzione è per definizione una punizione, ma certamente non deve essere fine a se stessa. Il suo obiettivo costituzionale primario deve essere il rispetto di condizioni di civiltà  perché – come dice la Costituzione – non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», spiega Sebastiano Ardita nominato presidente della nuova commissione carceri ed esecuzione della pena, a lungo direttore generale per i detenuti e il trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Il Consiglio superiore della magistratura si pone obiettivi notevoli, che  riguardano la tutela della salute e la rieducazione dei detenuti, il sostegno alla magistratura di sorveglianza e lo sviluppo delle misure alternative al carcere. Ma in che modo si dovrà intervenire? «Si tratta di argomenti strettamente connessi tra loro che richiamano la necessità di una visione di insieme nell’affrontare il tema della esperienza penitenziaria. La pena nasce da un processo e presuppone quindi il lavoro di un organo giudiziario; la sua espiazione avviene sotto la responsabilità del potere esecutivo e sotto il controllo della magistratura di sorveglianza; la rieducazione e la tutela della salute sono beni collettivi che comportano a loro volta l’intervento di altre istituzioni. Ecco perché è necessario che tutti i protagonisti di questa vicenda si parlino tra di loro. Ma questo non sempre accade, ed allora il Csm deve far si  che almeno i magistrati, che a vario titolo sono chiamati ad intervenire, lo facciano».

L’Italia è oggi il terzo Paese europeo per sovraffollamento dopo la Macedonia del Nord e la Romania. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è pari a 10.276 unità e presenta un indice del 20,56 per cento, un dato che preoccupa e che emerge dalla conferenza nazionale dei garanti dei detenuti. Rispetto all’ultimo anno, l’aumento è stato di oltre il 5% e in Sicilia i detenuti sono 6498. Servirebbe collaborare di più per far conoscere la realtà del carcere e per riuscire a realizzare interventi concreti, «all’inizio di questo decennio, quando dirigevo l’ufficio detenuti, pur in situazioni di grave affollamento, con grandi sforzi si riusciva a mantenere il giusto equilibrio tra civiltà della pena e  sicurezza all’interno degli  istituti. Anche perché si tratta di finalità che, come detto, vanno perseguite insieme».

Nel nostro ordinamento la detenzione non deve avere carattere punitivo, al contrario, «deve tendere alla rieducazione – continua Ardita – ciò significa che deve essere propositiva rispetto a questo scopo. Ma per rieducare, nel senso indicato dalla Costituzione, ci vuole anche la volontà  del condannato. E dunque la rieducazione è una opportunità, ma comporta anche dei sacrifici e un impegno”, ma spesso la gente sembra non voler accettare l’idea che un detenuto venga rieducato attraverso delle attività all’interno del carcere, “la società deve essere informata delle finalità della pena e dei vantaggi per la sicurezza che può comportare la rieducazione effettiva dei condannati. Non si deve colpevolizzare chi è scettico rispetto alle potenzialità rieducative del carcere, perché purtroppo vi sono molti casi nei quali questi obiettivi si sono trasformati in un fallimento. Ed anche perché qualcuno confonde la pena rieducativa con un carcere in cui i detenuti fanno ciò che vogliono. Mentre è esattamente il contrario. La pena rieducativa funziona dove vi è disciplina e osservanza di tutte le regole, dove il rispetto dei diritti umani dei detenuti si coniuga  con altrettanto rispetto per il lavoro degli operatori penitenziari, in condizioni di sicurezza dettate dallo Stato. Occorre solo lavorare perché le cose migliorino. E per questo le misure alternative non funzionano e non incontrano la fiducia dei cittadini: non perché non siano utili, ma perché nel nostro paese non abbiamo previsto strumenti di controllo adeguati per farle funzionare».

Per i minori, invece, valgono altre regole perché «la loro personalità è in una fase evolutiva e spesso intervenendo in modo efficace è più facile operare miglioramenti importanti della personalità. Certo occorre separarli dall’ambiente criminogeno che potrebbe avere influenze devastanti. Penso ai minori inseriti nei contesti di criminalità organizzata, spesso costretti da bambini a svolgere compiti da criminali adulti. Qui occorrerebbe recidere ogni legame con ambienti che spingono alla assunzione di quei ruoli. Ma negli altri casi il lavoro ha più possibilità di successo e per questo motivo esistono istituti dedicati come la messa alla prova. È però sempre importante che i ragazzi, ai quali si dedicano progetti di rieducazione, vengano presi in carico e seguiti attentamente».

Rieducazione, risocializzazione, recupero, continueranno a essere delle utopie? «Il sistema della rieducazione, quando effettiva e non formale, può legittimamente aprire la strada alle misure alternative. Il problema è che anche le misure alternative dovrebbero essere percorsi effettivi, che prevedano la presa in carico reale ed il controllo sul territorio degli affidati. Invece spesso sono solo un mezzo per il condannato per ottenere in qualche modo la libertà , e per lo Stato  una opportunità per liberare spazi detentivi.  Se dovessi dirle che nel nostro Paese questo sistema funziona le direi una bugia. Funziona con chi prima di esservi ammesso aveva deciso di cambiare vita, ma non costituisce affatto un deterrente per chi, uscito dal carcere, non esclude la prospettiva di continuare a delinquere».

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