Catania la città impacchettata


 
 
 
Concetto Ferrarotto

CATANIA – I palazzi di piazza Europa, quelli ricchi che guardano il mare, sono impacchettati. Con una reticella verde legata lungo i pilastri dal basso fino in cima e intorno ai balconi. Sono impacchettati pure i palazzi di corso Italia e le balaustre barocche della bella via Umberto. Sono corrosi, corrotti, mai curati, rischiano di crollare ma nessuno li ripara: li impacchettano. La ricchezza o la povertà non c’entrano nulla, sono i palazzi del salotto buono, quelli dove le botteghe si affittano a dieci o quindicimila euro al mese. E’ la città che ha scelto di fermarsi. Sono i suoi cittadini che rimandano sempre, c’è prima un Suv da cambiare; una lite da sistemare col vicino; un affare o un finanziamento da concludere col Comune. Ma oggi anche il Comune è impacchettato: dissesto finanziario. Lo ha deciso la Corte dei Conti.

Sono vent’anni che questa città nasconde, non vede, spegne la luce, cerca un divertimento altrove, imbelletta e impacchetta. La borghesia catanese è malata, non reagisce, non crea, non sogna. E’ corrosa, forse corrotta se gli scandali degli ultimi tempi saranno confermati dalle sentenze: l’ordine dei medici, le massonerie, l’arcivescovo, le opere diocesane, i fallimenti delle aziende blasonate, il processo all’editore e altri pasticci maleodoranti di cui già si vocifera nei corridoi di diverse istituzioni. Una spazzatura che vive bene tra i rifiuti ai bordi delle strade e con le prostitute sotto casa, purché non vi siano barboni perché la povertà è una colpa. Catania vuole sentirsi ricca rubando a sé stessa. Lo fa da anni, lo nega da sempre.

Si autodistrugge anche nella bellezza del sole estivo, insopportabile per chi vuol salire su quei bus sgangherati, mai puntuali e troppo caldi.

Dicono che il malessere stia nella periferia, può darsi. Il marcio è sicuramente in centro. Nelle sottigliezze da azzeccagarbugli con cui ogni fazione giustifica gli errori dei propri; nei vezzeggiativi riduttivi con cui si fa il nome di quel giudice arrestato per corruzione in atti processuali; brava persona tra gli amici, tanto buono e tanto carino: dispiace ma io non sapevo. Nessuno sa mai niente. Nessuno che si chieda il perché di un sistema. Nemmeno la cosiddetta opposizione stellata che dorme quando c’è da conoscere la città, urla e grida se deve andare in parlamento.

Per respirare un po’ di frescura bisogna scendere in fondo, allontanarsi dalle vetrine di negozianti sempre più affannati e farsi trasportare lontani dal centro, correre sul metrò che sembra un’impostura perché tanto diverso dal caos godereccio e rapace della superficie. E sì che gli ascensori già non funzionano, forse non hanno mai funzionato: quelli servono a chi ha l’handicap, non al catanese sempre ganzo.

Scendi giù ed è la mutazione genetica. Tutti in silenziosa e ordinata attesa; salgono e scendono dai vagoni risme di giovani, qualcuno in bicicletta, qualcun altro con tanto da chiaccherare; le signore con faccia da massaia; l’ingegnere stanco del traffico; il tiratardi sopreso dalla puntualità del treno. Non una folla ma una fila composta, figure compite e tranquille orientate alla loro destinazione, ad un progetto giornaliero accompagnato dai pochi passi per le scale mobili.

Un fiume carsico che scorre nascosto rivelando a pochi la possibilità di essere normali, senza apparire e senza vanteria, con la tenace modestia del voler fare.

Come una rappresentazione figurativa di quell’altro fiume che scorre nascosto alla politica, alle relazioni importanti, alla caciara regressiva del soldo falso: la Catania che tuttavia non si è fermata e non ha atteso l’aiuto pubblico né la mano del potente. Semplicemente, inventa e si muove. Va oltre i confini del territorio per imparare e riversare fra noi una modernità mai stanca, mai compiaciuta. Lavora e sostiene tutti gli altri.

E’ quel pezzo di Catania mai compreso, spesso straniero nel giudizio della volgarità padrona, che rende diversa e pur sempre viva questa distesa di palazzi impacchettati sotto il vulcano. E’ quel pezzo di Catania che oggi ha il pieno diritto di riprendersi la città.

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