Dalla Sicilitudine al "made in Sicily" nel business e nell'economia. Un appuntamento d'eccezione oggi pomeriggio a Catania

| Saro Faraci |

La riscoperta della Sicilitudine, sedotta dalla letteratura moderna ma poi abbandonata dai contemporanei isolani. Ovvero, la concomitanza dell’ambiente e del carattere siciliano. Una sorta di categoria metafisica, di condizione esistenziale e di stato antropologico dell’essere Siciliani. La metafora del mondo intero, secondo Leonardo Sciascia che della sicilitudine è stato un grande interprete, al punto da dipingerla come «l’insieme delle consuetudini, della mentalità e degli atteggiamenti tradizionalmente attribuiti ai siciliani». Ma sicilitudine è anche la rivendicazione di un’appartenenza, quella che lega visceralmente i Siciliani alla Sicilia, ovunque i primi si trovino, non solo residenti nell’isola, ma anche se fossero in capo al mondo. La sicilitudine come pendolo dell’odi et amo, di catulliana memoria; come metafora dell’oscillazione tra l’essere cittadini “di scoglio o di mare aperto”, per rievocare una distinzione di atteggiamenti che Andrea Camilleri ha ripreso bene nei suoi romanzi; come eccesso di identità, nel bene e nel male secondo Gesualdo Bufalino, ma anche culla dell’ospitalità e dell’accoglienza nonostante tutto, nonostante la pericolosità del mare aperto, nonostante le asperità della terra e dell’entroterra. Tutto questo è la sicilitudine che, secondo Crescenzio Cane che per primo coniò il termine nel 1959, «è una condizione dello spirito […] che scaturiva dalla paura e dalla solitudine che ti assaliva a vivere in Sicilia, terra di illusioni e delusioni, di slanci e di tirannidi: il fascismo prima, la mafia dopo». Ma la sicilitudine è anche il rovescio della medaglia. C’è un altro conio della moneta. Perché la nostra terra è dove la natura sprofonda nel mito, e il mito convive con la storia e la memoria, in modo unico ed irripetibile.

Alcune domande sorgono spontanee tuttavia. Quanta parte della sicilitudine la Sicilia è capace di riprodurre nei beni e nei servizi che le sue imprese producono? Quale porzione di questo inestimabile valore immateriale viene raccontato nei mestieri, nei lavori, nelle attività di business che proiettano molte nostre aziende nel mare periglioso della competizione globale? Quanta parte di questa identità viene riportata nei prodotti cosiddetti “made in Sicily”. E il “made in Sicilia” – sarebbe forse il caso di definirlo più correttamente – in cosa è diverso da altre forme concorrenti di “made in” che quasi tutte evocano, nell’immaginario collettivo, la provenienza geografica o le caratteristiche tecniche di un prodotto, senza raccontare altro? In cosa è diverso dal made in China, in Germany, in Japan, in France e dallo stesso made in Italy?

Paradossalmente il “made in Sicily” è proprio la riproduzione della Sicilitudine nel mondo del business e dell’economia. Un’espressione monetaria e di ricchezza, ma anche una proposizione di valore in senso più lato. Perché se i prodotti agroalimentari siciliani si comprano e si apprezzano in tutto il mondo non è soltanto perché sono più buoni dei beni concorrenti, ma perché sono capaci di esprimere meglio degli altri il vissuto dei Siciliani e la Sicilia, come ci ricorda Sciascia, è un po’ la metafora del mondo per via della sua storia sofferta e variegata. E se la Sicilia, come destinazione turistica, è visitata ed apprezzata da vacanzieri di nazionalità diverse non è soltanto perché la nostra terrà è sole, mare e monumenti che si trovano un po’ ovunque nel bacino dei Paesi mediterranei; ma è soprattutto un luogo antropomorfico dove è possibile immergersi per alcuni giorni nell’illusione di essere come i Siciliani, se si è nati altrove, oppure di ritornare a comportarsi come Siciliani, se il destino ha portato tanti figli della Sicilia lontani dalla terra d’origine. E via di seguito, perché il senso di accoglienza e la cultura dell’ospitalità dei Siciliani si ritrovano in numerose attività legate al mondo degli eventi, del catering, della ristorazione e dell’artigianato artistico. E, paradossalmente anche in un mondo globale che il web ha reso simile ad un villaggio come lo immaginava il sociologo  Marshall McLuhan, l’identità del “made in Sicily” emerge in tanti servizi digitali e di innovazione sociale dove ritorna a vedersi un’altra grande capacità dei Siciliani, quella di risolvere i problemi della quotidianità con un spirito di innovazione che molte volte è frugale, semplice, poco sofisticato ma molto efficace. Una competenza innata di “problem solving”

Di questi e di altri temi si parlerà, a partire da oggi, nel ciclo di seminari “Made in Sicily” organizzati dall’Università di Catania e dalla Camera di Commercio che si concluderanno il 28 giugno. L’appuntamento odierno vedrà a partire dalle 16, nella sala adunanze dell’ente camerale in piazza della Borsa, gli interventi di quattro champions di Sicilianità nel business: Salvo Filetti, Andrea Passanisi, Riccardo D’Angelo e Ciccio Mannino, che saranno intervistati dal direttore di Sicilia Network Daniele Lo Porto. Domani 20 giugno, a Palazzo delle Scienze in corso Italia 55 sede del Dipartimento di Economia e Impresa, saranno raccontate storie di sicilianità nel turismo e nel mondo dell’accoglienza. Di Etna, delle potenzialità del suo brand e del vino DOC si discuterà mercoledì 21 giugno, ancora a Palazzo delle Scienze. La sede del Dipartimento ospiterà anche il penultimo incontro, il 27 giugno, dedicato alle risorse della madre terra e all’agricoltura. Si chiuderà il 28 giugno, alla Camera di Commercio, con un seminario in cui verranno raccontate storie digital & social di nuova imprenditorialità e di start up, a partire dalle condizioni favorevoli di un’Etna Valley che non è soltanto microelettronica, ma è soprattutto un insieme di tecnologie di informazione e comunicazione in vari ambiti dell’economia. Tutti gli incontri si terranno dalle 16 alle 19.

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