Droga e carcere in Italia, prospettive e soluzioni per un ponte fra sanità e giustizia

Droga e carcere in Italia, prospettive e soluzioni per un ponte fra sanità e giustizia

di Katya Maugeri  e Sandro Libianchi – presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.), dirigente medico presso il Complesso Polipenitenziario di Rebibbia

La persona che fa uso stupefacenti è portata normalmente nella sua storia a commettere reati, proprio perché deve procacciarsi a tutti i costi il denaro per acquistare la sostanza. E finirà per spacciare per lo stesso motivo. Un quadro che delinea l’anticamera di un percorso giudiziario che diventerà, inevitabilmente, penitenziario in tempi successivi. Il 70-80% delle persone che consumano stupefacenti avrà nel corso della propria una vita almeno un episodio giudiziario al quale molto spesso ne conseguirà un altro di tipo penitenziario.

Un percorso simile – seppure con motivazioni differenti – avviene con le persone con disagio mentale, specie nel caso che questo si accompagni a un consumo di droghe e in queste situazioni è massima la possibilità di recidiva di reati.

Alcuni dati, seppur parziali, della Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia riportano informazioni utili ad alcune considerazioni. Nella Relazione che si riferisce al 2018 (e pubblicata nel 2019) ben il 27,9 dei detenuti risulta essere tossicodipendente.

Se poi si valuta l’intero capitolo dei disturbi psichici tra le persone detenute, questi raggiungono (tossicodipendenza inclusa) la percentuale del 41,3 % rappresentando la parte più rilevante delle patologie che si riscontrano in carcere (progetto CCM 2012 – https://www.ars.toscana.it/collana-documenti-ars/pubblicazioni-2015/2977-la-salute-dei-detenuti-initalia-i-risultati-di-uno-studio-multicentrico-2015.html).

Nel caso delle persone tossicodipendenti o con una storia di consumi di sostanze stupefacenti, le ripetute carcerazioni rappresentano bene anche la difficoltà della c.d. ‘ritenzione in trattamento’ da parte dei servizi specialistici territoriali delle ASL (Ser.D.) che, nonostante la loro grande professionalità a fronte dei poveri mezzi a loro disposizione, spesso non riescono ad essere sufficientemente ‘attrattivi’ su queste persone che non interrompono i loro comportamenti additivi, anche in concomitanza delle terapie erogate.

Quindi ad una prima difficoltà da parte del sistema sanitario di intercettare (intake) queste persone ed avviarle verso percorsi di riabilitazione, si aggiunge la criticità della commissione di reati che li porta giocoforza ad interrompere i trattamenti in corso ed iniziare una carcerazione con possibilità terapeutiche diverse ed in genere meno efficaci di quelle condotte in libertà. Il contesto carcerario di certo non facilita percorsi virtuosi di riabilitazione.

A livello di effetto globale delle azioni di contrasto al consumo di sostanze stupefacenti che sono messe in gioco da parte della società e possono interferire con la riabilitazione del tossicodipendente, rientrano senz’altro fattori diversi: quanto e come funzionano le forze di Polizia; quanto e come funzionano i tribunali penali; e soprattutto quanto e come i Tribunali di Sorveglianza riescono a irrogare misure alternative alla carcerazione e autorizzare il ricovero nelle comunità terapeutiche.

Anche il come e quanto funzionano i servizi sanitari del territorio risulta essere un determinante di esito in queste persone ed i fattori che incidono sul fenomeno della recidiva sono la somma di questi fattori. Proprio per questi motivi l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già molti anni addietro, definì la tossicodipendenza come una “malattia cronica di tipo recidivante che comporta numerose complicanze di tipo diverso, quali infettivologiche, psichiatriche, ecc.”.

Questa definizione, a tutt’oggi ben accetta dalla comunità scientifica seppure con qualche distinguo, evidenzia come ci sia una stretta connessione tra la malattia tossicomanica e aspetti psichiatrici e come, d’altra parte, nei consumatori di sostanze stupefacenti specialmente per via venosa, sia molto frequente il riscontro dell’infezione da epatite C o dell’HIV.

Lo scenario che cambia, la dipendenza resta

Un’altra osservazione che può essere condotta sulle persone che sono in carcere e risultano essere consumatori di sostanze stupefacenti è il cambiamento delle fasce di età coinvolte. Negli anni ’70 eravamo in presenza di soggetti per lo più giovani della terza decade che iniettavano eroina; oggi lo spettro di età si è allargato e sono coinvolte più fasce, da quelle giovanili (seconda e terza decade) fino a quelle della maturità (4°, 5° e 6° decade) con sporadiche presenze anche della 7° decade proprio a causa della tipica ‘cronicità’ della tossicodipendenza che non permette in molti casi di uscirne.

A testimonianza della estrema variabilità ed evoluzione della problematica tossicomanica è il continuo riscontro dei nuovi consumi e nuove droghe; dai sequestri che sono fatti sul territorio europeo e italiano si può vedere come ci si trovi di fronte a sintesi di centinaia di sostanze (soprattutto nel settore degli stimolanti tipo anfetaminici).

Da qualche anno poi è comparso prepotentemente sullo scenario metropolitano il consumo di crack, sconosciuto fino a pochi anni fa in Italia, ma molto diffuso in tutti gli Stati Uniti d’America sin dagli anni ’90.

Questa è una delle sostanze (cocaina modificata) oggi in circolazione più potenti e dannose per il rapido e rilevante danno che crea sulle strutture cerebrali della persona che ne fa uso. Accanto a queste considerazioni è necessario mettere in conto le differenze di genere che pongono importanti interrogativi sulle forme più opportune di intervento terapeutico. È noto infatti che nel genere femminile l’uso di sostanze stupefacenti più frequentemente si accompagna (o determina) forme di patologia psichiatrica, anche gravi. Di conseguenza l’intervento terapeutico dovrà essere maggiormente calibrato sulle specifiche problematiche della donna.

Ugualmente, anche nell’ambito della devianza, si assiste ad una percentuale di donne che delinquono nettamente diversa ed inferiore a quella degli uomini (4,19% al 30 giugno 2020). Inoltre è necessario porre anche un particolare accento alla devianza minorile dove, pur riscontrandosi anamnesticamente una frequente realtà di policonsumi specialmente di alcolici associati a sostanze stupefacenti, nell’ambito della giustizia minorile risulta ancora scarso il potenziale diagnostico dei sistemi di rilevazione e uptake. Infatti, raramente vengono poste in maniera circostanziata vere e proprie diagnosi di consumo di sostanze ed i termini utilizzati per indicare questa popolazione raramente sono quelli di ‘tossicodipendente’ o ‘alcoldipendente’, bensì’ quello di ‘assuntore’.

Questa assunzione è rilevata nella massima parte come dato anamnestico e quindi non dimostrata da specifici esami diagnostici (urine, saliva, sangue). Questi dati illustrano in maniera esaustiva il perché dell’importanza e la difficoltà di una successiva terapia personalizzata quale obiettivo primario degli interventi intra e post-carcerari e chiarisce anche la motivazione della frequente recidiva di questi soggetti.

La recidiva tossicomanica, quale esito di interventi frammentati, interrotti o cambiati del tutto nel corso delle diverse prese in carico sanitarie nei vari istituti di pena, determina una recidiva anche giudiziaria e penitenziaria in un circuito che di frequente innesca un meccanismo denominato ‘delle porte girevoli’ per il quale un soggetto entra e esce di continuo da un carcere all’altro.

Oltre a ciò spesso si assiste, nel tempo, ad un aggravarsi della tipologia di reato, sicché dal semplice furto si passa alle rapine con reati, oltre che contro il patrimonio, diretti anche contro le persone e con l’uso di armi. La valutazione giudiziaria di questi reati, spesso aggravati dallo spaccio di sostanze stupefacenti, conduce a pene assai rilevanti. A tale proposito, in questi ultimi anni si assiste ad un rapido e regolare incremento del reato di spaccio: le grandi organizzazioni hanno ramificato le attività di marketing favorendo la vendita e questo meccanismo si somma a quello degli altri reati.

Settore giustizia e sanità

Nell’ambito delle patologie da dipendenza il settore della giustizia e il settore della sanità percorrono binari paralleli ma diversi. Infatti nel testo unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) si assiste a uno scollamento tra le esigenze terapeutiche e il residuo della pena da scontare in concreto.

La norma prevede, infatti, che una persona detenuta possa accedere alle misure alternative e finire di scontare il periodo di condanna in una comunità terapeutica dopo la presentazione di una dettagliata documentazione. Purtroppo però si constata che alla scadenza del corrispondente periodo da scontare come carcerazione alternativa, gli affidati – che necessitano inevitabilmente di un periodo più lungo di recupero in tali strutture – interrompano il loro ricovero da queste comunità o da un servizio pubblico per le dipendenze, come se il periodo di pena e quello di terapia coincidessero quando in realtà sono diversi.

Questa percezione di coincidenza rafforzerebbe negli utenti anche un senso di ‘prolungamento della pena’ e ciò finisce per confondere i due livelli, quello di cura e quello di pena, decrementando fortemente il senso dell’intervento terapeutico e della presa di coscienza del problema tossicomanico personale.

Nella comune esperienza dei sanitari che lavorano in carcere spesso si è potuto constatare come soprattutto la prima carcerazione di una persona tossicodipendente potesse rappresentare un’occasione unica e, sperando, irripetibile per un contatto con la realtà, interrompendo l’assunzione di stupefacenti ed avviando un percorso di cura.

In questi casi, anche se estremi, il carcere si pone come reale ed immediato luogo di avvio di cura e, se si intensificassero gli sforzi, questo potrebbe diventare una reale anticamera di recupero, creando e rafforzando una motivazione al cambiamento sino ad allora insufficiente o assente assieme ad una assistenza medica professionale che riesca ad agganciare terapeuticamente l’individuo.

Oggi purtroppo la debolezza dei servizi sanitari in carcere aumenta la possibilità che ci sia una mancata o scarsa presa in carico con conseguente rischio di fallimento e di ritrovare le stesse persone dopo anni che entrano ed escono dal carcere. Oltre ciò si pensi anche agli stranieri che in carcere hanno frequentemente la loro prima visita medica della propria vita.

L’importanza della presa in carico e di una adeguata terapia non dovrebbe permettere ricadute o quanto meno ne dovrebbe ridurre l’incidenza. A tale proposito bisogna ricordare che la maggiore incidenza di overdose fatali da sostanze stupefacenti si ha proprio all’uscita dalle situazioni protette quali il carcere o le comunità terapeutiche, a testimonianza che la dipendenza è e resta un fattore intrinsecamente cerebrale e che troppo spesso l’uscita da queste strutture rappresenta la libertà di poter consumare nuovamente ed in totale libertà. Ciò testimonia che in  questi casi sia la presa in carico che il successivo trattamento sono stati inefficaci.

Inoltre, dopo un periodo di astinenza o di forte diminuzione del consumo come si ha in queste occasioni, l’organismo riduce la propria capacità di sopportare dosi di stupefacenti, elevando la sua sensibilità agli effetti di queste; le stesse quantità che si usavano in precedenza diventano pertanto eccessive e si può instaurare overdose.

La droga in carcere

Non ‘circola a vagoni’, come spesso si dice, ma è abbastanza presente e con prezzi elevatissimi, rappresentando una fonte di introito non indifferente per chi fa questi commerci.

Ci si chiede come sia possibile che entri in carcere sostanza stupefacente? Chi riesce a fare questi traffici? Qui purtroppo la risposta è molto semplice, perché gli unici che possono creare questi commerci sono proprio le persone che entrano ed escono dalla struttura penitenziaria in virtù della loro professione o della loro parentela. Quindi, la droga in carcere esiste e si consuma. Le stesse considerazioni seppur con qualche distinguo possono essere fatte anche per i superalcolici che però avendo volumetrie maggiori sono più difficili da trasportare.

Le misure alternative

Le misure alternative per le persone alcol-tossicodipendenti sono di una fondamentale importanza alla condizione che siano applicate in maniera utile alle loro specifiche finalità. In particolare devono poter essere applicate il più precocemente possibile; il programma terapeutico deve essere personalizzato (no ai programmi fotocopia) e multimodale prevedendo anche modalità terapeutiche diverse.

Un programma terapeutico dovrebbe essere evolutivo e tenere conto di un graduale reinserimento nella comunità di appartenenza ed evolvere di pari passo con i progressi della persona. Inoltre sarebbe molto utile se in essi fosse contenuta una parte relativa ad attività lavorative. Infine non bisogna dare per scontato che la fine della carcerazione alternativa debba necessariamente coincidere con la fine del programma.

Nel ‘patto terapeutico’ che si dovrebbe instaurare con il paziente tutte queste osservazioni ed esigenze andrebbero espressamente menzionate e concordate.

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