Fiction e polemiche sull'omicidio di Mario Francese

Katya Maugeri

È simbolo di una Sicilia che non vuole cedere alla mafia, che smantella l’omertà – quella che si respirava forte tra gli anni ’70 e ’90 – un cronista dalla profonda dignità, ucciso il 26 gennaio 1979 da Cosa nostra. Mario Francese, giovane cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia che alla fine degli anni Settanta con grande coraggio denuncia le operazioni dei Corleonesi per impossessarsi degli appalti pubblici siciliani. Il delitto resta senza colpevoli, ma quasi vent’anni dopo il figlio di Mario Francese, Giuseppe decide di far riaprire il caso, studiando gli articoli del padre per trovare nuove prove.

“Delitto di mafia”, diretto dal regista Michele Alhaique, in onda stasera su canale 5 in prima serata è il secondo capitolo del progetto Liberi sognatori, costituito da quattro film per la televisione su quattro storie vere che hanno segnato l’Italia, uomini e donne uccisi per mano mafiosa perché non si piegarono mai al compromesso e seguirono la propria coscienza: Libero Grassi, Mario e Giuseppe Francese, Emanuela Loi e Renata Fonte.

Mario Francese, interpretato da  Claudio Gioè, fu il primo a intuire il potere dei Corleonesi, il primo  a scrivere con nomi e cognomi, senza timore. Lavorò a lungo, infatti, sull’inchiesta relativa alla diga Garcia e su degli appalti che valevano 350 miliardi e sui quali la mafia aveva messo le mani. In “Delitto di mafia” si parlerà anche del figlio più piccolo di Mario, Giuseppe, interpretato da Marco Bocci, che dopo vent’anni di silenzi dalla morte del padre fa riaprire le indagini, collaborando con la giustizia fino a scoprire finalmente la verità: ad uccidere suo padre fu Leoluca Bagarella per conto di Totò Riina. Un’ossessione quella di Giuseppe che volle cercare a tutti i costi quella verità, cercò di capire le dinamiche, gli intrecci che portarono all’uccisione del padre. Dopo la sentenza che condannò svariati esponenti della famiglia dei Corleonesi per l’omicidio Francese, Giuseppe si tolse la vita. 

Il film è stato presentato nei giorni scorsi a Palermo con il disappunto dell’editore – direttore del Giornale di Sicilia, Antonio Ardizzone che voleva persino bloccare la messa in  onda della puntata inviando una lettera alla Tao due di Pietro Valsecchi – società produttrice – e a Mediaset affermando che “il film contiene frasi, immagini, commenti e affermazioni gravemente lesive dell’onore e della reputazione della nostra società e della testata giornalistica da essa edita”.

Su questa polemica interviene Claudio Fava, che del film è sceneggiatore: “Prendo atto che non è messo in discussione uno solo dei fatti che sono ricostruiti nel film: né dalla solitudine di Francese, né dell’attentato che subì il caporedattore con il silenzio della redazione dopo l’attentato. L’idea di non parlare di un giornalista ucciso dalla mafia è grave, l’idea che lo chieda l’editore e il direttore del giornale per il quale scriveva è cosa più che grave, triste. “Francese ha pagato con la vita per le cose che ha liberamente scritto sul Giornale di Sicilia. Nessuno glielo ha impedito, nessuno lo ha isolato”, si legge dall’editoriale che il Giornale di Sicilia dedica al film su Mario Francese. 

“L’editoriale del Giornale di Sicilia è triste ed imbarazzante: chi ha scritto quel film sarebbe “un sedicente moralista, esponente di un’antimafia sempre più parolaia e di maniera – aggiunge Fava – L’“antimafia parolaia” sono i fatti che il film ricostruisce e che l’editoriale del GdS si guarda bene dallo smentire. Le frequentazioni, giudiziariamente accertate, fra l’editore del giornale Ardizzone e il capo della cupola di cosa nostra Michele Greco. L’attentato mafioso subito dal caporedattore del giornale senza che il suo stesso quotidiano gli dedicasse nemmeno un trafiletto di solidarietà.
Gli incontri proposti con alcuni capimafia palermitani da un cronista di giudiziaria del GdS a Mario Francese, e da lui rifiutati, poco prima dell’assassinio. Un fatto, la solitudine umana e professionale che conobbe Francese in quei mesi.

Un fatto le parole durissime nei confronti del Giornale di Sicilia contenute sia nella requisitoria del PM che nelle motivazioni delle sentenze di condanna dei suoi assassini. Scrivono i giudici d’Appello: “…costituisce, ormai, un dato storico che, da quel momento (l’omicidio di Francese), la linea editoriale del “Giornale di Sicilia” muta radicalmente, sino a divenire, negli anni del primo maxi-processo, uno dei più feroci oppositori e critici dell’attività dei giudici componenti del c.d. pool-antimafia, definiti sceriffi e professionisti dell’antimafia ed attaccati quotidianamente con incisivi e dotti corsivi…” Aggiunge oggi l’editoriale del GdS a proposito di una foto, ricordata nel film, che ritrae l’editore assieme a Michele Greco, che quell’immagine “se mai esistesse risalirebbe a decenni prima”. Se mai esistesse? Acquisita agli atti del processo, descritta da decine di testimoni, ricordata dallo stesso Michele Greco e siamo ancora fermi alla negazione dell’evidenza?

E raccontare quell’evidenza sarebbe antimafia parolaia? In ogni caso, aggiunge l’editoriale di oggi, Michele Greco solo diverso tempo sarebbe stato identificato dalle inchieste giudiziarie come mafioso. Falso. Pateticamente falso. Tutti sapevano, alla fine degli anni settanta, che Michele Greco a Palermo era il capo della mafia come Nitto Santapaola a lo era a Catania: e se con loro si incontravano prelati, editori, ministri e prefetti lo facevano nella piena consapevolezza che quei loro compagni incensurati di merende rappresentavano il potere utile ed indiscutibile di cosa nostra. Di questo parla il film. Di questo non parla affatto la “smentita” del Giornale di Sicilia. Ora, non si chiede al GdS di essere il Washington Post – conclude Fava – ma pretendere il diritto a silenzio, all’oblio, alla reticenza e alla menzogna sulla storia di un loro giornalista ammazzato dalla mafia è cosa assai triste, ancor più che grave. Ci dice quanta strada c’è ancora da fare.
E quante verità da reclamare”.

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