Fleri, novanta giorni dopo il terremoto di Santo Stefano quando il tempo della normalità si è fermato all'improvviso

di Saro Faraci

FLERI – Novanta giorni dopo il terremoto di Santo Stefano che ha devastato diversi centri dell’area etnea posti lungo la faglia di Fiandaca a Fleri, il piccolo centro di Zafferana Etnea, c’è un silenzio surreale al mattino presto. Poche macchine in giro provenendo da Zafferana in direzione Catania; a Poggiofelice la strada provinciale è totalmente sgombra di auto e tutt’intorno le tavole di legno sono lì a puntellare le abitazioni fortemente danneggiate dal sisma; dinanzi alla Chiesa di Fleri c’è qualche macchina posteggiata, come al solito, con i genitori pronti a lasciare i figli dinanzi al bus che dai paesi etnei accompagnerà i ragazzi nelle scuole dell’acese; e poi la via Vittorio Emanuele, spezzata in due, presidiata da un lato e dall’altro da militari con le mitragliette spianate, come se ci fosse una guerra in atto e non ci sia stato mai un periodo di pace. Venendo invece da Catania, per andare verso Zafferana, bisogna fare un lungo giro dell’isolato per riprendere la strada maestra, provando a decifrare le indicazioni stradali come evidenziato dalla foto sopra pubblicata. Tutto è surreale. E’ la vittoria del senso del dovere dettato dalla logica pubblica dell’adempimento sul senso pratico e del fare suggerito dalla logica civica del risultato. Quando Zamberletti diede vita alla Protezione Civile facendone un modello di riferimento in tutto il mondo per la gestione delle emergenze non immaginava certo che l’emergenza potesse essere gestita dopo di lui in condizioni di continua emergenza, senza una pianificazione, senza un chiaro orientamento al risultato.

Novanta lunghi giorni a Fleri, a Pisano, a Pennisi, e così via da quando il tempo della normalità si è fermato alle 3.19 della notte di Santo Stefano. Pochi secondi di terrore, mentre la terra tremava, e piovevano a terra oggetti e suppellettili vari dentro molte case, in altre abitazioni cadevano giù mobili e pareti, in altre ancora si aprivano fessurazioni a terra. Prima di quei pochi secondi di scossa di magnitudo 4.8 regnava il tempo della normalità. E c’erano i riti della normalità, le abitudini della normalità, la vita quotidiana della normalità scandita da casa e lavoro, lavoro e casa e tanta famiglia intorno. Adesso si fa fatica a riprendere la strada della normalità e non perché sia stata interdetta al traffico, come molte arterie viarie della zona ed aggirabile attraverso un lungo dedalo di stradine e viuzze, ma perché davanti alla strada normalità è stata posto un pesante portone in ferro battuto che intralcia pure il cammino della Speranza. E’ il portone della burocrazia, delle carte, delle direttive ed ordinanze confuse che si sono susseguite freneticamente in novanta giorni, e pure del decreto di imminente pubblicazione che non ha fatto alcuno sforzo per voltare pagine rispetto alla gestione iper-burocratizzata dei precedenti eventi calamitosi.

La paura fa novanta secondo la Smorfia. Ma anche novanta giorni sono da paura quando non c’è verso di riprendere il cammino della normalità.

 

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