Giornata mondiale contro la violenza sulle donne: un problema culturale e sociale

Giornata mondiale contro la violenza sulle donne: un problema culturale e sociale

di Pina Mazzaglia

CATANIA – Il 25 novembre è la giornata istituita dall’ONU per combattere ogni forma di violenza contro le donne. Non si tratta di una data casuale. È il ricordo del brutale assassinio avvenuto nel 1960 delle sorelle Mirabal, considerate rivoluzionarie, furono seviziate, violentate, uccise e poi gettate in un burrone (per simulare un incidente) durante il regime di Rafael Leónidas Trujillo che, per più di trent’anni, dominò la scena politica e finanziaria nella Repubblica Dominicana, tenendo nell’arretratezza il suo popolo.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato nel 1999 il 25 novembre “Giornata internazionale contro la violenza alle donne”; un tributo istituzionale in ricordo del brutale assassinio, invitando i governi, le organizzazioni e i media a sensibilizzare la società sulla violenza di genere e in particolar modo sul femminicidio, fenomeno in crescita che non conosce frontiere geografiche. La violenza contro le donne è forse la violazione dei diritti umani più vergognosa. Essa non conosce confini né geografia, cultura o ricchezza. Fin tanto che continuerà, non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace. Così affermava Kofi Annan, Segretario Generale delle Nazioni Unite nel 1993, dichiarando come “la violenza sulle donne” sia la più vergognosa violazione dei diritti umani, dal momento che non si tratta solo di una questione di civiltà ma di una vera e propria questione sociale per estensione geografica e sviluppo nel tempo.

Proprio per la globalità dei luoghi dove si verificano le violenze è possibile dire che la violenza sulle donne viene perpetrata ovunque, in tutte le classi sociali, in tutti i paesi del mondo, seppure in maniera differente e con diverse definizioni. A cominciare dalla caccia alle streghe nella Riforma protestante; al suicidio delle vedove indiane – attraverso la pratica della sati – che costringe la donna rimasta vedova a salire sulla pira ardente accanto al corpo del marito morto – anche se oggi dichiarata illegale, registra, purtroppo, diversi episodi; poi la pratica del loto d’oro – la fasciatura dei piedi in Giappone e l’aborto selettivo in Cina in base al sesso per disfarsi dei feti femminili, riducendo così, in modo drastico, la percentuale delle neonate; le sterilizzazioni forzate; le mutilazioni genitali; l’acidificazione delle donne indù (vittime di “incidenti” domestici architettati ad hoc) che rifiutano il matrimonio perché non in grado di pagare la dote richiesta dalla famiglia del futuro marito; la legalizzazione dello stupro del coniuge, cioè il matrimonio a tempo, in uso nei paesi di religione musulmana (dietro al quale insiste il fenomeno della prostituzione legalizzata); il matrimonio riparatore e il delitto d’onore; il mobbing e le molestie sessuali; la morte delle donne costrette a praticare l’aborto clandestino; lo stalking; lo stupro e per finire il femminicidio: sono le variegate forme di violenza subite dalle donne in tutto il mondo. Il femminicidio, quale estrema, ma non unica manifestazione della violenza di genere è un fatto sociale: la donna viene uccisa in quanto donna, perché rivendica una libertà che non le è consentita, una libertà che per secoli non è stata prevista e quando tale libertà viene reclamata non la si perdona: perché a tutt’oggi, radicate convinzioni (modelli socio-educativi e relazionali trasmessi da generazioni) tengono la donna subordinata all’uomo e come soggetto dipendente nel rapporto affettivo. Siamo davanti a un fenomeno in continuo aumento e nonostante i numerosi sforzi per sradicare gli stereotipi legati ai ruoli sessuali, il numero di donne vittime di violenza cresce a dismisura. Un fenomeno difficile da concepire, da ammettere, da razionalizzare, perché molte volte si annida negli interstizi della società, spesso sfuggenti e insospettabili, manifestandosi per lo più silenziosamente nella vita quotidiana, e perché molto spesso, le informazioni che si hanno generano ambiguità, pregiudizi, preconcetti, dando luogo a percezioni distorte e a sovrapposizioni di significato. In particolar modo quando tale violenza è tollerata da una relazione tra i sessi in cui esista uno squilibrio di potere, di violenza che rende difficile il riconoscimento di tale oppressione. È la violenza domestica, il maltrattamento delle mogli, la forma di violenza nei confronti delle donne che oggi è maggiormente diffusa, una violenza che non salta immediatamente agli occhi perché si genera all’interno della cerchia famigliare. È un fenomeno sfuggente del nostro tempo, del quale talvolta si riesce a intravedere una remota superficie indistinta, e di cui talaltra si percepisce solo un’immagine sfocata: un fenomeno che si manifesta per lo più silenziosamente nella vita quotidiana e che riesce a rappresentarsi come un evento accidentale persino nella percezione delle stesse vittime.

La violenza contro le donne si intreccia con l’identità personale e sociale di uomini e donne, con i diversi profili socio-culturali degli aggressori e delle vittime, con i ruoli sociali che occupano, i loro progetti di vita, le aspirazioni e ancora oggi con il permanere del potere dovuto al patriarcato, inteso non come forza fisica, ma come espressione di potere e di violenza che nella sottocultura maschile sono quelli dominanti. Non a caso la stessa Dichiarazione adottata dall’Assemblea Generale Onu parla di violenza contro le donne come di “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”, in quanto, ancora oggi, le differenze sessuali – anche nella società occidentale – non sono solamente delle differenze biologiche, bensì due sottoculture, due conformazioni, che non sono il prodotto della natura biologica, bensì l’insieme dei ruoli della nostra società assorbiti attraverso gli agenti di socializzazione, di crescita, di formazione durante il processo educativo diverso per gli uomini e per le donne: due modi di percepire e vivere il mondo, frutto dello storico squilibrio nei rapporti di potere tra i sessi in ambito sociale, economico, religioso e politico, e che costituisce, ancora oggi, uno dei meccanismi sociali fondamentali di sottomissione delle donne andando a indebolire o annullando il godimento dei loro diritti.

La Convenzione di Istanbul, siglata nel 2011 e ratificata dal Parlamento Italiano con la legge 77/2013 è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza al fine di sensibilizzare la società per destrutturare gli stereotipi di genere: l’importanza educativa e culturale è il primo agente di cambiamento per una cultura del rispetto. La riflessione sulle dinamiche della violenza e della disparità dei ruoli è la chiave di lettura per eliminare ogni forma di pregiudizi connessi ai ruoli di genere, nonché alla discriminazione, all’esclusione, all’emarginazione e a ogni altra forma di violenza maschile. La violenza sulle donne come ci ricorda Riccardo Iacona nel suo libro Se questi sono gli uomini, “È una guerra – che ha un obiettivo immediato: annientare, ridurre al silenzio la donna che ha osato alzare la testa, che ha detto no, che ha scelto di lasciare il compagno o che si è rivolta a un giudice… È quindi una storia che ci riguarda da vicino, perché ci dice come siamo nel profondo, tutti, nessuno escluso”.

 

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