I giornalisti, la carta e i mulini a vento


Pubblichiamo la relazione annuale del presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, Riccardo Arena, esposta in occasione dell’assemblea degli iscritti per l’approvazione del bilancio.

PALERMO – Nelle Ore di Spagna, un suo saggio corredato da splendide foto in bianco e nero di Ferdinando Scianna e poco conosciuto, centrato soprattutto sulla guerra civile che insanguinò il Paese di Cervantes, Miguel de Unamuno e Francisco Franco, Leonardo Sciascia scrive che Tra i dieci o venti grandi libri che (…) costituiscono durevole patrimonio umano, il Don Chisciotte è ovunque, Spagna inclusa, uno dei meno letti. E per una ragione semplicissima: che tutti credono di sapere cosa è, quasi fosse stato letto in una vita anteriore o sognato

Poiché, lo confesso senza vergogna, nemmeno io ho letto il Don Chisciotte e so di questa opera monumentale ciò che tutti conoscono superficialmente, come la famosa metafora della carica contro i mulini a vento, prenderò spunto da Sciascia e la utilizzerò per descrivere ciò che ogni giorno i 4949 giornalisti iscritti all’Ordine di Sicilia, assieme ai colleghi di tutta Italia e probabilmente del mondo, devono fare: combattere, come il personaggio creato da Miguel de Cervantes, i simboli di un progresso che appare sempre più inarrestabile e contro i quali c’è, a mio avviso, ma spero di sbagliarmi, ben poco da fare, se non tentare di conviverci meglio che si può.

I mulini a vento con cui dobbiamo confrontarci sono gli emblemi di un progresso che un tempo passava per la cultura, il sapere e dunque il leggere e oggi invece passa per il suo opposto, cioè il leggere meno possibile: tanti, tantissimi titoli, molte immagini, preferibilmente video, e testi brevissimi che circolano su cellulari, tablet, computer, senza l’incomodo di dover andare in edicola, spendendo per di più almeno 1,30 euro, e con l’ulteriore vantaggio della possibilità di commentare e interagire in tempo reale.

Confesso che il confronto, nei corsi di formazione, con i giornalisti più giovani, mi lascia un po’ interdetto: da una parte, infatti, ci sono coloro che sono felici che il futuro avanzi e che considerano una battaglia di retroguardia quella a difesa – ad esempio – della professione, della deontologia e della carta stampata, una sorta di disfida contro i mulini a vento del web, sterminata prateria di libertà, forse troppa. Dall’altra ci sono invece coloro che vedono in pericolo il proprio futuro, che già non lascia loro molte speranze, ma in cui ogni barlume di prospettiva finisce soppiantato dalle sterminate e immateriali palestre per editorialisti e maitre-à-penser improvvisati di ogni tipo, occupazione e soprattutto grado di istruzione, che non sentono il bisogno di informarsi, perché ritengono di sapere tutto e anzi sono convinti che qualcuno di coloro che lavorano nell’informazione ufficiale voglia nascondere loro la verità.

È un’inutile battaglia, persa in partenza, poi, quella contro i social, che – lo vediamo – sono sempre più totalizzanti e privi di regole e tanti, tantissimi colleghi disoccupati avvertono il pericolo delle invasioni di campo del nostro settore.

In una conversazione che mi è capitato di incrociare su Facebook, una dei due partecipanti alla discussione sostiene con genuina convinzione quanto noi giornalisti siamo “tutti asserviti a logiche devastanti contrarie alla verità e all’obiettività” e che non scriviamo “in modo oggettivo i fatti”; il suo interlocutore invita i propri amici del noto social a “guardare personalmente in rete, in diretta streaming, le sedute parlamentari, ad esempio”; aggiungendo poi che “leggere i resoconti giornalistici distorti e manipolati fa orrore”.

Ora, possiamo prendere in giro quanto vogliamo questi sconosciuti e considerarli poco o per niente o, al contrario, come fanno sempre più spesso giovani e anziani colleghi, prendercela prima con l’Ordine, che, come sempre, non fa niente, e poi – molto poi – magari con chi, nella nuova politica, a forza di screditare e delegittimare una categoria intera, mette sempre più a rischio il nostro pane: basta guardare la conclusione dello sconosciuto utente di Facebook, che scrive di avere da tempo “abbandonato i giornali e questi manipolatori dell’informazione”.

A guardare i dati ufficiali ADS, relativi alle vendite dei quotidiani in Sicilia, l’abbandono dei giornali è condiviso da fin troppa gente. Il Giornale di Sicilia è sceso del 72%: nel giro di cinque anni, dal gennaio 2012 al gennaio scorso, è passato da 53.582 a 14.527 copie vendute al giorno; inferiore, ma non per questo meno preoccupante, il dato de La Sicilia, che passa da 35.491 del 2012 a 16.881 (lo scostamento equivale a -52%), e quello della Gazzetta del Sud, che da 38.100 è calato fino a 21.258, con una percentuale pari al 44% in meno.

Sono dati che ripetiamo ogni anno e che nessuno vuol vedere o sentire, preferendo parlare di crisi generalizzata e globale, negando e anzi fuggendo da corresponsabilità che appaiono evidenti, non cercando la condivisione delle scelte ma facendo ricadere decisioni drastiche sui giornalisti e sui poligrafici, che pagano le conseguenze di una crisi durissima: e così, mentre magari sugli stessi giornali magari ci si indigna per invocare il cambiamento da parte degli altri, in genere nelle pubbliche istituzioni, i quotidiani crollano anche nel breve, perdendo tra sette e diecimila copie ciascuno tra il 2015 e il 2017.

Sono cifre da paura, che hanno portato a una vertenza durissima, con sei giorni di sciopero nel quotidiano di via Lincoln, e che ha costretto al ricorso agli ammortizzatori sociali tutti e tre i principali giornali dell’Isola, al cui orizzonte non compaiono vie d’uscita: per tutti il futuro è quanto mai incerto.

Ma se davvero la crisi è generalizzata – anche questo è un dato ricorrente – dobbiamo prendercela con i lettori siciliani, accusandoli di essere sottosviluppati e di non capire né apprezzare il nostro modo di fare giornalismo? Come vediamo dalla tabella successiva, testate omologhe o appartenenti ad aree geografiche di gran lunga ridotte rispetto alle nostre, perdono pure, sì. Ma non nello stesso modo. Il Mattino di Napoli, che ha una vocazione nazionale, è calato di circa trentamila copie nel quinquennio, novemila nel biennio, ma mai quanto i tre giornali siciliani; è deprimente pure, e non certo per motivi di campanile, vedersi soverchiati da quotidiani come la Gazzetta di Parma e la Gazzetta di Mantova, che sarà pure il quotidiano più antico d’Italia, ma gravita su una città di 127 mila abitanti e su una provincia di 412 mila (13 volte meno gli abitanti della Sicilia intera), per non parlare del Giornale di Vicenza, 10 mila copie sopra il Giornale di Sicilia e ottomila davanti alla Sicilia, per tacere, ancora, della Nuova Sardegna, che nel derby delle Isole (speriamo non sia di cattivo auspicio per l’impegno prossimo venturo del Palermo calcio col Cagliari) surclassa le siciliane; persino la Provincia di Cremona è divisa da un migliaio di copie in meno dal giornale edito a Palermo, la cui città capoluogo conta 671 mila abitanti, che diventano quasi il doppio, un milione e 270 mila, se si considera come città metropolitana, con i paesi dell’hinterland.

E poi L’Adige, nelle due edizioni delle province di Trento e Bolzano, che navigano sulle 12 mila copie ciascuna per realtà territoriali che insieme fanno un milione di abitanti, cinque volte in meno dell’Isola, mentre L’Arena di Verona è molto più in alto di tutte le nostre testate, in una provincia di diffusione che conta meno di un milione di abitanti. Chi nega che la crisi sia generalizzata? Il Corriere della Sera rimane il quotidiano più venduto in Italia, ma con appena 230 mila copie giornaliere (180 mila in meno rispetto al 2012), e Repubblica supera di poco le 200 mila unità (-150 mila nel quinquennio): in via Solferino hanno perso 81 mila copie rispetto al 2016 e il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari “appena” 24 mila. Risale di poche centinaia di copie il Fatto Quotidiano, che però è a meno 20 mila rispetto a due anni fa, e il Giornale è più che dimezzato rispetto al 2012: come dire – ribadisco una battuta già fatta, ma, ahimè, aderente alla realtà – che Berlusconi logora sia chi non ce l’ha più come nemico, che chi ce l’ha ancora come padrone.  Tiene il Messaggero, fortemente ancorato e identitario nella città di Roma e nel centro Italia, diretto dal palermitano Virman Cusenza; perdono invece centomila copie ciascuno, dal 2012, la Stampa e il Sole 24 Ore, anzi qualcosa di più il quotidiano di Confindustria, scosso, come è ben noto, proprio dallo scandalo delle copie gonfiate, che deve far riflettere tutti. Se questo è il quadro, c’è da chiederci come mai ci stiamo occupando ancora di media in apparenza e nella sostanza sempre più marginali, come i giornali di carta: dobbiamo pure chiederci se sia utile discutere del futuro di questi mezzi di informazione, quando non c’è un adolescente, oggi, che usi non solo comprare ma anche soltanto leggerli, i giornali di carta; e chi oggi ha 15, 16 anni sarà il “non-lettore” di domani.

Il numero dei giornalisti è sostanzialmente stabile, rispetto all’anno scorso: i professionisti sono 1045, 5 in più del 2016, i praticanti tre in meno (29, contro 32) i pubblicisti erano 3941 e ora sono 3904. Il totale è di 4949 iscritti (l’anno scorso 4981), e siamo per la seconda volta consecutiva sotto le cinquemila unità, che diventano 5169 se ci aggiungiamo i direttori delle testate tecniche, professionali o scientifiche, che non sono colleghi.

È un Ordine più al maschile, con 1768 donne e 3181 uomini, una proporzione quasi di due a uno perfettamente rispecchiata in un Consiglio in cui erano stati eletti sei uomini e tre donne; e donna è la vicepresidente, l’infaticabile Teresa Di Fresco, che oggi ha tenuto a battesimo la biblioteca dell’Ordine, da lei voluta e organizzata, nonostante le difficoltà tecnico-pratiche che ha dovuto affrontare. Del Consiglio aveva fatto parte pure l’insostituibile e compianto Giacomino Clemenzi, che abbiamo salutato per l’ultima volta nei giorni scorsi, e i cui familiari sono qui con noi, oggi, per ricevere una testimonianza di affetto da parte non solo dell’Ordine ma di tutti i giornalisti siciliani.

I numeri parlano di inversioni di tendenza, in generale, e di crisi delle vocazioni, se non di fuga da questo mestiere, se si pensa che nella consiliatura 2007-2010 furono iscritti 805 nuovi pubblicisti e 176 professionisti; cifre oggi ridotte a un terzo. Certo, era un periodo di vacche che erano fin troppo grasse, in specie nell’elenco pubblicisti, per non pensare che non ci fosse una qualche anomalia nel sistema, dato che già tra il 2010 e il 2013 c’era stata una notevole riduzione, con 559 nuovi pubblicisti e 69 professionisti; tra il 2013 e l’anno scorso, termine naturale di questo Consiglio, solo 360 nuovi pubblicisti e appena 42 professionisti, una media di 10 nuovi pubblicisti al mese contro i 22 dei tempi andati, e di 14,5 professionisti all’anno, rispettata nei primi nove mesi di questi tempi supplementari della consiliatura, con 119 pubblicisti e 12 professionisti.

Il dato relativo ai professionisti merita un’analisi a parte, perché questo è il settore in cui sono state sanate storture e ingiustizie, grazie alle illuminate e illuminanti direttive del Consiglio nazionale, fino a un paio di settimane fa presieduto dall’oggi dimissionario Enzo Iacopino, che salutiamo e ringraziamo per il lavoro svolto. E lo ha fatto, questo Ordine professionale, con studio, sacrificio e competenza, perché in un sistema anacronistico che tuttora condiziona l’accesso all’elenco dei professionisti all’assunzione da parte di aziende editoriali private in perenne crisi, questa istituzione professionale ha consentito di diventare professionisti a giovani e meno giovani giornalisti che, pur avendo tutte le carte in regola, mai sarebbero divenuti tali.

Questo Ordine cioè si è fatto carico di situazioni in cui si doveva assolutamente sanare la posizione di chi, per diritto ma anche per un senso superiore di giustizia, doveva entrare a far parte a pieno titolo della categoria. In Sicilia però oggi sono 1381 gli iscritti alla gestione principale dell’ Inpgi, dunque coloro che hanno un contratto di lavoro dipendente sono meno di un terzo del totale dei quasi 5000 iscritti, pari al 3,9% del dato nazionale. Gli iscritti alla gestione separata Inpgi sono oggi 2032: siamo a meno della metà del totale dei giornalisti professionisti e pubblicisti siciliani e si deve tenere conto del fatto che molti sono iscritti sia alla gestione principale che a quella separata. Ma anche a voler sommare i 1180 dell’Inpgi1 e i 2032 dell’Inpgi2, restano fuori 1700 iscritti di cui non si hanno notizie professionali, né con riguardo alle attività da loro svolte, né con riferimento al loro interesse a rimanere iscritti all’Ordine. Vedremo come questo numero coincida poi – più o meno – con quello di coloro che chiameremo gli zero crediti, coloro cioè che in tre anni non hanno totalizzato alcun punto nell’ambito della formazione.

Due le riflessioni: la prima è che, complice una legge fin troppo permissiva, che andrebbe aggiornata, che noi subiamo ma dobbiamo applicare, ci sono stati tempi in cui le maniche sono state fin troppo larghe, per ciò che concerne l’ingresso di nuovi pubblicisti, con danni enormi per i veri pubblicisti, quelli che il mestiere lo fanno dentro le regole. Questa situazione ha provocato un eccesso di offerta di forza lavoro, che si è inevitabilmente tradotto, complice la crisi e le ferree leggi del mercato, in una radicale contrazione dei compensi per i collaboratori: il Cdt è intervenuto e ha messo sotto procedimento, in alcuni casi li ha già sanzionati, una decina di direttori di testate, per le violazioni del Testo unico della deontologia e della Carta di Firenze, in esso contenuta. Ma sull’attività del CDT avete già ascoltato la relazione del presidente, Giuseppe Vecchio, che ringrazio per il lavoro che, da poco più di sei mesi, ha intrapreso con gli altri otto componenti del consiglio di disciplina territoriale.

La più rigorosa selezione dei nuovi pubblicisti è stata resa possibile grazie all’istruzione più che attenta delle pratiche da parte dell’intero Consiglio e a un colloquio d’ingresso che, lungi dall’essere ai livelli dei test della Normale di Pisa, come i nostri non pochi detrattori romani insistono nel dire, vuol far comprendere ai neo giornalisti il valore di quello che molti si ostinano a chiamare il patentino di pubblicista e che altro non è che un titolo di Stato, dunque una cosa quanto mai seria. Ma in ogni caso è vero: la manica è diventata stretta. Le leggi che consentono l’accesso alla professione attraverso testate che sono le più disparate, quasi tutte online, molte senza tutele e retribuzioni reali, si applicano, certo. Ma le regole si devono pure – più che legittimamente e necessariamente – interpretare.

L’altra riflessione è che, soprattutto tra i professionisti, aumenta il numero di coloro che sono senza tutele, senza contratto, senza copertura alcuna: giovani e non più tanto giovani, in molti casi valorosi e bravi professionisti, che rischiano di non avere mai un contratto di lavoro, di essere la generazione no-articolo1, la generazione senza un presente e senza un futuro, senza una pensione e costretta a vivacchiare. Mi hanno fatto riflettere molto, come giornalista e come rappresentante della categoria, le parole ascoltate a un recente corso di formazione, tenuto nella giornata del ricordo delle vittime della mafia e pronunciate da una collega, come Alessandra Turrisi, non a caso vincitrice di un riconoscimento al Premio intitolato a Mario e Giuseppe Francese. Una collega bravissima e la cui perdurante condizione di precaria è lo specchio della crisi: in panchina stanno i migliori e in campo andiamo – mi ci metto pure io – gli ultracinquantenni, costretti ancora a fare i centravanti di sfondamento. Dice Alessandra:

Chi vive di questo mestiere oggi si ritrova come gli operai che fabbricano magliette e jeans in Bangladesh e in altri Paesi in cui vengono sfruttati: se dobbiamo portare a casa un minimo di sostentamento dobbiamo produrre molto, senza stare attenti alla qualità e all’approfondimento, saltando da una cosa all’altra. Gli editori hanno abbassato coscientemente il livello della qualità: il loro è un modo per tirare a campare, che inevitabilmente si riverbera sulla qualità del prodotto Non possiamo negare che quanto dice la collega riguardi non solo i precari, ma tutti coloro che sono chiamati a fare presto e bene, da soli, ciò che prima facevano tre o anche quattro colleghi.

Perché, di fronte a questa crisi che certo non abbiamo creato noi, ma che anzi, come giornalisti attivi e nella professione subiamo direttamente, senza sconti e privilegi e senza avere fatto carriera alcuna nelle aziende in cui lavoriamo, mi sento spesso ripetere, non da Alessandra ma da tanti colleghi giustamente arrabbiati, e l’Ordine che fa, l’Ordine non fa niente, l’Ordine dov’è. Il plurale, riferito a privilegi e carriere, non è maiestatis, lo uso perché questo destino professionale negativo accomuna me e gli altri colleghi del Consiglio: ma sarà solo un caso. Comunque sia, con tutta la pazienza possibile, io accetto il confronto e il dialogo con i precari, per i quali gli anni passano e che spesso (ma non sempre) hanno ragione da vendere, le cui posizioni sono state e saranno sempre da me difese a spada tratta, anche se l’Ordine non è il sindacato. Dico questo con la certezza che chi verrà dopo, farà ancora di più e meglio di me, ma intanto non accetto che critiche e attacchi, spesso tutt’altro che costruttivi, piuttosto velenosi e basati su presupposti di fatto fasulli, arrivino da iscritti a questo Ordine professionale con funzioni di rappresentanza, che magari si ergono a paladini e capipopolo dei meno fortunati, ma partendo da posizioni personali di assoluto privilegio. La cosa che però mi lascia basito non è che chi ha posizioni di potere e retribuzioni plurime tenti di conservarle tutte, vestendosi per l’occasione da Masaniello: è inconcepibile piuttosto, per me, che ci siano colleghi che si lascino affascinare e strumentalizzare da personaggi che tanto poco hanno dato a questa categoria e che troppo hanno invece avuto.

C’è grande bisogno – lo si è visto alle ultime, partecipatissime elezioni del segretario provinciale di Palermo, che hanno riconfermato Roberto Ginex, affiancato ora da Totò Ferro e Davide Di Giorgi, ai quali tutti va il nostro saluto e gli auguri di buon lavoro – di partecipazione, e di partecipazione attiva proprio da chi, giovane anche se non più tanto giovane, ha il diritto e il dovere di prendersi le responsabilità che gli competono, perché c’è anche un più che legittimo bisogno di ricambio, nella rappresentanza della categoria, a tutti i livelli, sindacale, ordinistico e delle altre istituzioni professionali, dall’ Inpgi alla Casagit.

Del Consiglio dell’Ordine attuale, la cui scadenza è stata prorogata per legge, in attesa che si stabilisca come votare per il nuovo Consiglio nazionale (che sarà composto solo da 60 persone, contro le 156 attuali), fanno parte due precari, fortemente voluti da me e dagli amici con cui condivido il percorso che scherzosamente definisco di lotta e di governo: parlo soprattutto del per me insostituibile Concetto Mannisi (e insisto nel definirlo tale, nella piena consapevolezza della non indispensabilità di chiunque altro, a partire da me stesso), che è impagabile per sacrificio e dedizione; e Filippo Mulè, che invece è … pagabile, dato che attende ai doveri della tesoreria e per la quinta volta ci ha consegnato un bilancio pienamente in attivo, di un’azienda-Ordine più che florida, così come controllato e certificato dall’attenta revisione del collegio presieduto da Placido Ventura, competente e professionale in ogni sua mossa. Abbiamo così avuto Giovanni Villino, tecnologo con vocazioni futuriste, che tanto può e deve dare ancora a questa categoria, e Eleonora Cosentino, anche lei insostituibile nel fare da pungolo e coscienza critica, più che efficiente nel seguire i casi che le sono stati affidati. Abbiamo avuto il piacere di avere con noi anche la collega Gisella Cicciò, attiva nella formazione e vicina ai colleghi della sua provincia, quella di Messina, mentre abbiamo dovuto dividere, anche in questa consiliatura, Salvo Li Castri con la Uilca, la Uil dei bancari e gli altri suoi impegni, non ultimo quello che ha al Corecom dell’amico Ciro Di Vuolo, che salutiamo. Ma il Consiglio prossimo futuro, visto che quest’anno, verosimilmente in estate, si dovrebbe votare, sarà profondamente rinnovato nei suoi vertici e verrà aperto a tutti i contributi che arriveranno da uomini e donne di buona volontà.

L’Ordine che fa, lo si può leggere anche nei numeri delle revisioni, che vediamo in questa tabella, per scoprire che nel periodo compreso tra il 2007 e il 2013 erano state appena 227, tra professionisti e pubblicisti, con sole 35 cancellazioni di colleghi iscritti da meno di 15 anni e totalmente inattivi nella professione. Dal 2013 a ora, dunque in tre anni e nove mesi, le revisioni, previste per legge, sono state 1018, sempre negli elenchi di professionisti e pubblicisti, con 410 conferme e 231 cancellazioni. I ricorsi sono stati 27, più della metà – 14 – accolti, ma alcuni di questi poi respinti per intervento della giustizia ordinaria. Un lavoro diretto a garantire chi questo mestiere lo fa veramente e a circoscrivere la possibilità di rimanere iscritti all’albo solo ai giornalisti attivi. Ci è stato detto, dal vicepresidente nazionale dell’Ordine, Santino Franchina, per adesso presidente reggente al posto di Iacopino (e al quale va il nostro augurio di buon lavoro e buona reggenza) che in Italia, a fare le revisioni siamo rimaste due regioni, la Sicilia e la Puglia. Non ritengo che Franchina volesse invitarci a imitare le altre 18, sempre che siano veramente così inattive: in ogni caso, complimento migliore non avrebbe potuto farci.

Dicevo che l’Ordine non è il sindacato, in cui il preziosissimo e fondamentale lavoro, spesso ingrato e ingiustamente criticato, di Alberto Cicero e Giancarlo Macaluso, grazie ai preziosi consigli di Massimo Bellomo e Gigi Ronsisvalle, cerca di tenere a freno i tentativi degli editori di smantellare le redazioni e quelli della politica di escludere totalmente i giornalisti dalla gestione degli uffici stampa. Contiamo i giorni che ci separano dalla fine della legislatura dell’Ars, segnata da una presidenza della Regione che abbiamo visto manifestarsi e realizzarsi più in un programma televisivo, dal titolo per me particolarmente spiacevole, L’Arena, che in un programma politico concreto a tutela dei siciliani: sono stati cinque anni duri, in cui, a partire dall’ufficio stampa di Palazzo d’Orleans, abbiamo assistito a una tendenziale e totale deregulation nella maggior parte degli enti pubblici; è ora che le istituzioni regionali e locali si diano regole che convengono a tutti, i concorsi per selezionare – con contratti a tempo determinato o indeterminato – i componenti stabili degli uffici stampa, incarichi fiduciari per i portavoce, separando nettamente le carriere e assicurando a tutti trattamenti economici dignitosi e conformi ai nostri contratti di lavoro. Sarà una battaglia dura, che sindacato e Ordine continueranno a condurre di comune accordo, come abbiamo fatto finora.

Una battaglia dura, che non è l’unica: ci siamo dovuti impegnare, da ultimo, per far ottenere a Riccardo Orioles una pensione, attraverso i benefici della legge Bacchelli. Il nostro istituto di previdenza, infatti, ha potuto solo dare un contributo una tantum, al collega che con Pippo Fava fondò i Siciliani e poi ha fatto da maestro per generazioni di giornalisti: sicuramente non si poteva fare diversamente, non abbiamo motivo di ritenere che potesse fare di più un’istituzione in cui il vicepresidente, che salutiamo, è messinese, Giuseppe Gulletta, e una componente del cda, Maria Pia Farinella, è palermitana. Entrambi poi sono pure consiglieri nazionali dell’Ordine, ma è stato il presidente Iacopino, con il giovane Luca Salici, a farsi alfiere del sostegno a Orioles; l’Ordine di Sicilia ha a sua volta spinto e dato il proprio contributo, e non soltanto comprando a Riccardo uno smartphone, per consentirgli di tenersi in contatto con i suoi ragazzi. Ci chiediamo però se anche nella tutela previdenziale interna alla nostra categoria non ci debbano essere strumenti utili per salvaguardare gli ultimi, coloro che hanno perso tutto pur avendo dato tanto.

Battaglie ne abbiamo fatte e a chi verrà in via Bernini ne toccheranno tante altre: una sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta – premieremo tra poco i colleghi – ha riconosciuto che legittimamente Josè Trovato e Giulia Martorana tacquero la fonte di un’informazione, anche se pubblicisti; battaglia, per equipararli ai professionisti, che continua, a favore dei pubblicisti che fanno questo mestiere, con Marco Bova a Trapani, difeso dai legali dello studio Caleca, Roberto Mangano e Marcello Montalbano, assieme ai quali affianchiamo anche Paolo Borrometi, minacciato dalla mafia di Vittoria, mentre siamo parte civile pure a Catania, all’udienza preliminare del processo che vede Mario Ciancio imputato di concorso in associazione mafiosa. Siamo con Pier Paolo Olivo, a Caltanissetta, emarginato nell’ufficio stampa del Comune. Su iniziativa del presidente Iacopino, l’Ordine nazionale ha pure denunciato le intemperanze e le minacce contro i colleghi impegnati nel racconto della kermesse autunnale dei Cinque Stelle a Palermo.

Nessuno è intoccabile, anche se forse, a livello nazionale, c’è un eccesso di attenzione mediatica sulle performance della sindaca Raggi: al Premio Francese la commissione ha riconosciuto tanto i meriti di chi ha fatto andare avanti l’inchiesta sulle firme false quanto chi ha spinto per i diritti dei disabili, provocando le dimissioni di un assessore regionale del governo siciliano. Siamo orgogliosi di questo Premio, organizzato nel giro di un paio di mesi col prezioso contributo di Giulio Francese, che è anche fiduciario Casagit, e che ormai vive in sinergia e in simbiosi con le scuole, alle quali dev’essere dedicata grande attenzione, dal mondo dell’informazione, se si vuol avere qualche speranza di sopravvivenza.

E però siamo stati criticati – oltre che per la piscina, eterno tormentone delle riunioni del fortunatamente, fra poco, meno affollato e pletorico Consiglio nazionale: ma voi pensate 156 persone che discutono della nostra piscina! Non ha prezzo! – anche per la quota, che viene ritenuta alta, in una regione in cui la formazione non si paga nemmeno un centesimo e i giornalisti iscritti, lo abbiamo già visto, sono in diminuzione. Altrove si paga di meno ma i colleghi sono il doppio, il triplo, cinque volte i nostri; e chi incassa di meno ha spese uguali a chi incassa di più: il personale infatti va pagato ugualmente, le spese fisse, dalle assemblee alle elezioni che si tengono in tre seggi, a Palermo, Catania e Messina, non si riducono in parallelo con il calo delle vocazioni dei giornalisti.

E mentre i consiglieri e i revisori e i componenti non palermitani del CDT ci siamo ulteriormente autoridotti i rimborsi delle spese affrontate per le attività istituzionali, pure sul personale è in atto una politica di doveroso contenimento dei costi, centrata sulle valutazioni dei meriti effettivi, e sappiamo che i nostri dipendenti, il ragioniere Francesco Riolo e Maria Grazia Rubino, ormai dei veterani per numero di anni di servizio, sapranno cogliere le necessità indotte dalle nuove tecnologie e dalle nuove esigenze di celerità e buon andamento della pubblica amministrazione, e ne sapranno fare tesoro, da qui al loro non lontanissimo collocamento in quiescenza.

Emanuele Giordano, infaticabile e prezioso nel suo lavoro, è un puntello per le tante attività del Consiglio e del Consiglio di disciplina, Fabio Gambino e Alessandro Riolo mandano avanti la “macchina” di questa villa, mentre Osvaldo Esposito ha fatto della nostra la regione-pilota in fatto di formazione, totalmente gratuita, se organizzata da noi, mentre non rispondiamo di un ente terzo, l’Istituto superiore di giornalismo, che non intrattiene rapporti con noi, cioè con la categoria dei giornalisti, affidato dal presidente pro tempore della Regione a un editore che a noi, Ordine e sindacato, appare un pochino in conflitto d’interessi.

La formazione, dicevamo: vedrete nelle tabelle, che vi saranno mostrate in rapida sequenza, come sono stati distribuiti, provincia per provincia, tra i 5174 iscritti originari alla piattaforma Sigef, i 623 eventi organizzati dal 1° aprile 2014 a ora, 561 dei quali già chiusi e celebrati. I grafici, realizzati da Osvaldo, vi mostrano gli eventi gestiti nel triennio come piccoli grattacieli da scalare e che è stato tutt’altro che facile affrontare. Un’offerta formativa di prim’ordine e di prima qualità, che si traduce in un confronto tra colleghi e con altre categorie professionali, in materie che sono le più varie: e così abbiamo province come Enna, in cui c’è stato un evento ogni 13 iscritti; Agrigento, 1 ogni 19; Siracusa, 1 ogni 22 e a ruota Caltanissetta, 1 ogni 23; e così via tutte le altre province, cosa che dimostra l’ampiezza delle possibilità offerte in Sicilia. Dovremo ora anche riequilibrare il sistema, per rinforzare province come Messina e Catania.

Su questa macchina – innovazione degli ultimi momenti – si potrà esprimere il proprio parere, dando anche un voto alla qualità dei corsi: abbiamo già visto che il numero degli iscritti effettivi è inferiore a quello di coloro che sono registrati sul Sigef e dunque il fatto che 2293 colleghi, poco meno della metà, abbiano raggiunto il target dei crediti deontologici e non, è un risultato più che positivo, così come – ognuno ha potuto vedere la propria situazione personale, nella lettera di convocazione che abbiamo mandato per questa assemblea – il fatto che altri 1454 colleghi si distribuiscano fra i 490 che hanno fino a 20 crediti, i 515 oltre 20 e i 449 oltre i 40, è un dato positivo, in questo primo triennio di formazione che, come sapete, sarà permanente, fino a quando si eserciterà la professione ed esisterà l’Ordine. Restano fuori invece, i 1048 – che in realtà saranno scesi a 700, per effetto delle cancellazioni, ma che restano comunque decisamente troppi – che, non rientrando tra i 312 esentati e giustificati, né avendo diritto alla riduzione per effetto degli oltre 30 anni di iscrizione all’albo, non hanno conseguito alcun credito. È su costoro, che con priorità, il Consiglio raccomanderà al CDT di agire per verificare il loro interesse a rimanere iscritti a un Ordine alle cui attività e iniziative non partecipano né mostrano di voler appartenere.

Tirando le somme, cito il blog Redat-24 di Giovanni Villino, che nella sua edizione di ieri scrive che, secondo i dati Istat, In Italia nel 2003 si potevano consultare solo 145 testate online (91 erano la riproposizione della versione cartacea, 54 i nativi digitali). Oggi è quasi impossibile fare una stima delle testate giornalistiche su Internet. Da quelle generaliste alle specializzate, il flusso di registrazioni è quasi continuo. Al momento, a livello nazionale, non è ancora stata fatta una stima di tutte le testate attive. La procedura burocratica non troppo complessa, i bassi costi di diffusione (almeno a livello informatico) e l’immediatezza della pubblicazione solleticano molti aspiranti editori e direttori. Di contro, si fanno i conti – a lungo termine – con la difficoltà di sostenere economicamente una impresa editoriale, a partire dal famigerato costo del lavoro: programmatori/sviluppatori, giornalisti, video e foto, eventuali agenzie di stampa… Ciò nonostante sono diverse le esperienze di successo. Anche in Sicilia, dove alcune piccole e medie realtà hanno saputo affrontare momenti di stallo (pubblicitario) con il rilancio delle attività anche sui social Scrive Gabriello Montemagno nel suo pamphlet Il babbìo, storia della stampa satirica a Palermo, Sellerio, Palermo 2013: Con la restaurazione borbonica, come spegnendo il fuoco sotto una pentola che bolle, da un giorno all’altro tutto quel fervore di stampa si acquietò improvvisamente. Se nei 16 mesi di governo rivoluzionario erano nate e si erano date il cambio a Palermo circa 163 testate giornalistiche, negli 11 anni seguenti, dal giugno 1849 al maggio del ’60, la città ne vide nascere meno di 25. Come un sonno che improvvisamente cala su un intero popolo. E tra quei 25 giornali, neppure uno a carattere satirico

Se guardiamo i numeri citati da Giovanni e dal ben più autorevole Gabriello, sorprende la (quasi) coincidenza fra le 145 testate online di tredici anni fa (in tutta Italia) e le 163 di circa 170 anni fa, solo a Palermo, nel periodo della rivoluzione del XII Gennaio: numeri che, in tempi ed ere geologiche diverse, testimoniano la grande voglia di progresso che sempre si esprime attraverso la voglia di comunicare e di informare, di far circolare le idee. La carta è in crisi, è morta, è alla fine? Parliamo sempre di carta e di mulini a vento: parliamo piuttosto di informazione da reinventare, di media che si devono integrare fra di loro, di energie giovani da inserire nel mercato del lavoro siciliano, di cronisti ultracinquantenni non da rottamare ma forse da riconvertire, e qui mi concedo un’autocitazione che è pure un auspicio.  Non sappiamo se la carta sia o meno ai titoli di coda, sappiamo però che Donald Trump, nei primi due mesi della sua presidenza, ha involontariamente rivitalizzato giornali apparentemente in crisi: il New York Times nel trimestre novembre 2016-febbraio 2017 ha registrato 300 mila abbonati in più per l’edizione online a pagamento, il Washington Post ha totalizzato il 75% in più di abbonati e si prepara ad assumere nuovi giornalisti, Usa Today ha il 64% in più di abbonamenti digitali.

Sciascia, dal quale siamo partiti e col quale adesso mi avvio a chiudere, sempre critico com’era con tutto ciò che era irreggimentato, scriveva, ancora con riferimento al capolavoro di Cervantes, che Né Don Chisciotte né Amleto preparano alla vita (…) come introdurre nella scuola il giornale da leggere e da fare è tutt’altro che una preparazione alla vita; all’effimera, labile menzogna quotidiana, piuttosto Abbiamo il dovere istituzionale di dare torto al Maestro di Regalpetra, abbiamo il dovere di provarci, perlomeno: il nostro lavoro non è menzogna, anche se la verità è e rimane un obiettivo lontano. Perché noi dobbiamo puntare alla verità sostanziale dei fatti, quella di cui la nostra legge professionale ci impone di andare in cerca, vietando a noi stessi la caccia a un introvabile unanimismo o a un inammissibile pensiero unico. A noi, oltre che smentire Leonardo Sciascia, tocca fare l’esatto contrario di quanto il signor Richard Enfield diceva all’avvocato Utterson, e si tratta di due dei personaggi dello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Robert Louis Stevenson:

… Non mi piace indagare: è una cosa che va bene per il giorno del giudizio. Fare una domanda è come smuovere un sasso. Tu te ne stai tranquillo in cima a una collina e la pietra comincia a rotolare giù, trascinandone con sé delle altre, poi tutt’a un tratto un tizio che non c’entra nulla (l’ultimo che ti saresti immaginato) si becca un colpo in testa mentre si fa gli affari suoi nel giardino di casa e la famiglia deve cambiare nome. Nossignore, è una mia regola: più una faccenda non quadra, meno io chiedo…

Con l’augurio di ogni bene per la nostra professione e per noi tutti, continueremo a indagare, finché ne avremo le forze e la possibilità, finché cioè, col nostro fondamentale contributo, vivrà la democrazia.

Riccardo Arena, presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia

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