Katya Maugeri
La volontà di raccontare frammenti lasciati in ombra, uno spazio temporale omesso e mai approfondito, il desiderio di svelare la mostruosità umana dei cattivi, dei mafiosi e farlo attraverso la tridimensionalità. Per riuscire serve curiosità, ambizione e profonda conoscenza di quel lato oscuro che caratterizza ogni essere umano. “Volevo raccontare una storia che altri hanno raccontato a metà, mai studiata a scuola attraverso un appeal moderno, un look diverso e un linguaggio contemporaneo, internazionale, capace di conquistare anche il giovane pubblico” ci racconta Stefano Lodovichi, un regista che osa e punta all’innovazione senza frasi fatte né giri di parole ed è quello che dimostra nel suo ultimo lavoro, insieme al regista Davide Marengo, nella serie TV “Il Cacciatore”, realizzata da Cross production per Rai fiction che in questi giorni sta concorrendo a Cannes, ispirato alla storia del magistrato Alfonso Sabella e al suo libro “Il cacciatore di mafiosi”.
Lodovichi ha collaborato con il gruppo di scrittura dei primi sei episodi, cercando di creare un’atmosfera inedita che potesse rendere la serie diversa da quanto è stato offerto fino ad oggi in tv. “La voglia di raccontare i fatti che sono accaduti dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, perché sono tanto tremendi quanto necessari per conoscere a tutto tondo l’epoca della lotta Stato-mafia dal 1993 in poi. Con l’arresto di Riina solitamente in tv si interrompono i racconti per poi riprendere dall’era Provenzano, ma nel mezzo troviamo Leoluca Bagarella i fratelli Brusca. Non se ne parla mai”.
Il pubblico ha ben accolto questo modo originale e inedito di conoscere episodi mai narrati, “una svolta innovativa da parte della Rai che – coraggiosa – ha accettato un progetto così ambizioso. Mi ritengo un regista pop che cerca di raccontare delle storie in maniera raffinata”
La mafia sanguinaria, quella che non perdona ma anche quella caratterizzata dall’umanità – seppure è assurdo pensarlo – rinchiusa tra le mura di casa dei mafiosi. “Ci confrontiamo con tanti archetipi, raccontiamo una universalità dei personaggi a tratti vicini a noi ed è proprio lì che si dovrebbe innescare un corto circuito. Dentro di noi, nell’attimo in cui realizziamo che in fondo sono persone a noi vicine umanamente, ma che in realtà quando escono di casa cambiano il vestito e vanno a fare delle cose incredibili: rapiscono bambini, li ammazzano. La loro umanità è racchiusa nella loro intimità, fuori diventano disumani. Non mostri – è davvero riduttivo descriverli così – ma disumani. Personaggi che lottano contro fantasmi interiori, dubbi, inferiorità, come Tony Calvaruso, i fratelli Brusca, Mico Farinella che vive con estremo disagio l’essere figlio di un boss e nella misteriosa figura di Lucio Raja.
Stefano Lodovichi nei primi sei episodi della serie ha dimostrato al pubblico quanto sia importante raccontare una realtà conosciuta e descritta solo in parte e lo fa mettendo in luce persino la violenza, quella solitamente censurata. “Per descrivere realmente l’animo del mafioso occorre il contrasto. Il contrasto, inaspettato, avvincente, che approfondisce il ruolo del mostro – rivelandolo come tale – e lo si può percepire solo se nell’inquadratura prima vedi un uomo che dà un bacio amorevole alla figlia e nell’inquadratura dopo prende un uomo e lo strozza con le sue mani. In questo susseguirsi di immagini contrastanti vedi il mafioso, e non nascondendo quell’omicidio attuando una censura”. Ed è determinato Lodovichi quando ci racconta con passione ed enfasi il desiderio di arrivare al pubblico in maniera autentica, attraverso scene crude, che disturbano e che a tratti tendono a far distogliere lo sguardo dallo schermo. Fastidio, sì, quello che si prova dinanzi a una cattiveria indegna, la cattiveria di coloro che fuori da quelle mura domestiche sembrano demoni sciolti assetati di potere, di sangue. Di vendetta.
Per la prima volta sullo schermo troviamo un protagonista, Saverio Barone, interpretato da un bravissimo Francesco Montanari che delinea perfettamente il profilo dell’antieroe. Dell’uomo che lotta contro i suoi demoni interiori, affranto da traumi, rabbia e dall’adrenalina verso missioni che vuole portare a termine, ad ogni costo. rinunciando persino alla sua stabilità emotiva.
Tutto questo ricorda moltissimo il filo conduttore della saga di Star war, quel lato oscuro che pervade l’animo umano ma che rende vivi e autentici. “Volevo assolutamente raccontare di un protagonista diverso, una via di mezzo tra Dart Fener e Batman, ma che con la sua passione potesse far venire voglia ai giovani di diventare dei giudici antimafia”.
Il Cacciatore è una lente di ingrandimento sulla battaglia contro il disarmante potere del male, quello disumano, capace di sciogliere nell’acido corpi e respiri, e sulla forza di coloro che “non sono morti, quindi pronti a lottare”.
(ph Valentina Glorioso)