di Katya Maugeri
«Siamo arrivati alla pandemia in affanno. In sovraffollamento. Con numeri che non consentivano soluzioni. Numeri che non sono gestibili anche in assenza di contagio», spiega Patrizio Gonnella, presidente Antigone durante la presentazione del XVI Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione.
«Durante queste settimane – continua il presidente – abbiamo cercato di informare, sostenere i bisogni di protezione individuale. Adesso dobbiamo evitare i nuovi focolai carcerari, perché l’epidemia non è finita».
Un Rapporto che non potrebbe esistere senza l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, che dal 1998 entra in duecento carceri italiane ed è strumento di conoscenza per chiunque si avvicini alla realtà penitenziaria.
Un Rapporto dettagliato che mette in luce i disagi e le carenze di un sistema pieno di ombre ricordando che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” secondo l’articolo 27 della Costituzione. Leggendo i vari capitoli sembra di ripercorrere il viaggio consapevoli che ancora c’è molto da fare.
La pandemia ha inevitabilmente scosso anche la realtà carceraria che ha vissuto momenti di grande caos. Tra l’8 e il 9 marzo quasi tutte le carceri italiane sono diventate luoghi di protesta.
«Sui telefoni di Antigone, la notte dell’8, i primi video mostravano detenuti sui tetti, volute di fumo fra le sbarre, camionette della polizia. Agenti dietro scudi a far fronte a file di familiari riuniti davanti al carcere. In alcuni filmati si sentivano le urla dei detenuti e il frastuono delle pentole sbattute contro le inferriate. In 49 istituti, si sono viste barricate in sezione, letti divelti, materassi bruciati, gente sui tetti. Non proteste ma rivolte, secondo il gergo penitenziario».
Un periodo di grandi polemiche, tutte affrontate magistralmente all’interno del Rapporto che spiega con numeri, statistiche e dati, una situazione carceraria spesso alterata dalla cattiva informazione.
Sarà possibile approfondire e leggere anche un capitolo sulla “Magistratura ed emergenza sanitaria”. «La magistratura, non solo di sorveglianza, si è dunque trovata a dover affrontare una emergenza senza precedenti e dalle conseguenze potenzialmente dirompenti sul piano della stessa tenuta del sistema carcerario. Lo ha dovuto fare ricorrendo quasi esclusivamente alle norme già presenti nel nostro ordinamento, che ha saputo dimostrare, se utilizzato con elasticità, apertura mentale e uno sguardo costituzionalmente orientato, di possedere potenzialmente tutti gli strumenti necessari a garantire una detenzione rispettosa della salute dei detenuti e della umanità del trattamento».
Ma qual era la situazione delle carceri nel nostro paese in quel momento?
Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone ha illustrato, durante la conferenza, il Rapporto partendo da un elemento imprescindibile: l’affollamento. «A fine febbraio i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. Le donne in tutto erano 2.702, il 4,4% dei presenti, gli stranieri 19.899, il 32,5%” Il tasso di affollamento ufficiale era dunque del 120,2%». Negli ultimi 10 anni la popolazione detenuta è aumentata, ma è anche notevolmente invecchiata, ponendo così le premesse per una ulteriore condizione di rischio di fronte alla minaccia del Coronavirus. Le carceri italiane sono tra le più affollate d’Europa, seconde solo a quelle belghe, il cui tasso d’affollamento all’inizio dello scorso anno era del 120,5% (quello italiano era del 119%).
Tutto questo, inevitabilmente, si traduce in condizioni di vita in carcere molto difficili, anche da un punto di vista igienico. In 25 delle 98 carceri visitate da Antigone nel 2019 sono state trovate celle in cui non era nemmeno rispettato il criterio dei 3 mq per detenuto. In 45 istituti visitati, circa la metà, c’erano inoltre celle senza acqua calda per lavarsi e in 52, ben più del 50%, c’erano celle senza doccia, cosa che costringe i detenuti ad usare docce comuni. Tutto questo può lasciar immaginare le difficoltà della vita in carcere anche da un punto di vista igienico e le ovvie conseguenze per la diffusione delle malattie infettive.
Un’analisi attenta è dedicata al personale penitenziario. La polizia penitenziaria è la figura professionale numericamente più presente nelle carceri. Ha una pianta organica di 37.181 unità e un sotto organico del 12,3%. Al nord la carenza di organico raggiunge il -14,7%, al centro Italia è molto simile (-13,9%) mentre al sud è del -9,4%. Il numero di detenuti per ogni agente è di 1,9, migliore della media europea, di 2,6 detenuti per agente. Gli educatori sono 774 mentre l’organico previsto è di 895 persone, ciò significa un educatore ogni 79 detenuti.
In termini percentuali è il centro Italia a soffrire maggiormente della carenza di questa figura professionale (-15,7%) mentre nel nord Italia la carenza è del 11,5%. Mancano anche i direttori. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone, solo in poco più della metà degli istituti visitati c’è un direttore incaricato esclusivamente in quell’istituto. Dai dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone si evince che i volontari sono circa 1 ogni 13 detenuti, mentre i mediatori culturali sarebbero presenti sono nel 9% degli istituti.
Salute
Le patologie più diffuse continuano ad essere i disturbi psichici (41,3%), quelli del tratto gastrointestinale (14,5%) e le malattie infettive (11,5%). Anche l’OMS conferma il disturbo psichico come la principale patologia in carcere. Nei 98 istituti visitati una media del 27,6% dei detenuti risultava in terapia psichiatrica. Con alcuni record, come quello del carcere di Spoleto dove risultava in terapia il 97% dei reclusi, o quelli di Lucca il 90% e Vercelli (86%).
Il suicidio in carcere
Il fenomeno del suicidio e del tentato suicidio in carcere continua ad avere una risonanza sempre più elevata. Nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani (dato confermato sia dalla fonte del Dap che da Ristretti Orizzonti). A mantenere il numero assoluto più elevato è l’istituto napoletano di Poggioreale con 22 suicidi; ma problematici appaiono i dati dei più piccoli istituti soprattutto di Cagliari con 16 suicidi con una media di presenti di più di 4 volte inferiore a quella di Poggioreale e Como, un istituto molto più piccolo con una capienza regolamentare media di circa 250 detenuti e un tasso di sovraffollamento medio del 184%.
L’affollamento non solo riduce lo spazio fisico a disposizione di ciascun detenuto, riduce l’accesso al lavoro, la possibilità di essere seguiti dagli educatori nel percorso di trattamento e, quello che senza dubbio qui più rileva, riduce anche l’accesso ai servizi per la salute mentale come le ore di servizio di psicologi e psichiatri ogni 100 detenuti. La modalità principale di suicidio tra le sbarre resta l’impiccamento: 52 su 53 suicidi nel 2019 hanno avuto questa dinamica.
Minori in carcere
Se all’inizio del 2019 gli Istituti Penali per Minorenni italiani ospitavano 440 ragazzi, un anno dopo nei 17 Ipm erano recluse 375 persone (di cui 23 donne), a fronte delle 12.836 in carico ai Servizi della Giustizia Minorile. Si evince una elevata presenza di detenuti stranieri, oltre al 40% delle presenze totali in Ipm. Con l’emergenza Covid-19, il numero delle presenze è diminuito ulteriormente. Se fino al 15 marzo era rimasto sostanzialmente invariato, nel mese successivo è sceso di 74 unità, fino a contare 298 detenuti.
La criminalità in Italia
L’andamento dell’illegalità nel nostro Paese ha subìto una ulteriore diminuzione in questa fase emergenziale. Dal 1° gennaio al 31 marzo 2020, infatti, il totale generale dei delitti ha mostrato un trend in flessione: -29,2% rispetto all’analogo periodo del 2019.
Secondo il Ministero dell’Interno sono stati denunciati 410.726 delitti nel I trimestre 2020 rispetto ai 579.735 del medesimo periodo del 2019. Tra i delitti in aumento troviamo l’usura (+9,6%). Tra i delitti in flessione nei periodi a confronto vengono segnalate: le rapine in abitazione (-20,4%); banca (-40,7%); negli uffici postali (-59,4%); in pubblica via (-23%). Le estorsioni (-42,4%); i furti con strappo (-34,7%); con destrezza (-31,9%); in abitazione (-32%); di autovetture (- 29,1%); la ricettazione (-31,1%).
Spesso il carcere è associato alla marginalità. Persiste il pregiudizio, lo stigma in cui il detenuto o l’ex detenuto resta marchiato in modo indelebile e che lo emargina, inevitabilmente dalla società.
Ma qual è l’identikit del detenuto tipo?
Su 60.769 detenuti presenti al 31 dicembre 2019, 705 erano i laureati, 4.868 avevano un diploma di scuola superiore, 714 un diploma di scuola professionale, 19.485 una licenza di scuola media, 6.393 la licenza elementare, 882 erano senza nessun titolo di studio. Continua la crescita degli analfabeti, che nel 2019 erano 1.054 (due anni fa, nel 2017, erano meno di 700).
Un argomento che crea non poche polemiche, oggi, sono le misure alternative al carcere. Negli ultimi anni il numero di detenuti sottoposti a una misura alternativa al carcere è aumentato in maniera costante. A fine 2008 tra detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e semilibertà erano coinvolte 7.530 persone; 10 anni dopo, a fine 2018, erano diventate 28.031: quasi il quadruplo.
Al 15 aprile 2020 erano 30.416. Nel rapporto si legge un aspetto molto importante che vale la pena sottolineare: quello dei costi. Le misure alternative costano meno di un decimo di quanto costi la detenzione (tre miliardi l’anno. 134 euro al giorno il costo di ogni detenuto). Nel 2020 il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità – che ha in carico le misure alternative – costava il 3,16% del bilancio complessivo del Ministero della Giustizia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il 34,3%. Una ragione in più per promuoverle.
Un ulteriore elemento utile a valutare la marginalità di una parte della popolazione detenuta – si evince dal Rapporto – è dato dalla realtà delle dipendenze. Abuso di psicofarmaci, di alcool e droga rappresentavano per molti detenuti uno status di quotidianità nella loro vita fuori le sbarre. Le statistiche anche qui permettono di quantificare l’incidenza della dipendenza da sostanze nella popolazione ristretta negli istituti di pena.
Gli eventi recenti ci hanno drammaticamente messo di fronte al tema della tossicodipendenza in carcere. Oggi non possiamo fingere di non sapere che gli penitenziari ospitano persone che anziché fuggire ricercano una boccetta di metadone.
I detenuti tossicodipendenti, infatti, arrivano di media ai 30 punti percentuali degli ingressi ogni anno in carcere, mentre rappresentano stabilmente più di un quarto dei presenti.
Il Covid-19 lascerà un ricordo traumatico e doloroso anche nella realtà carceraria ma leggendo il Rapporto di Antigone è chiaro il desiderio di trasformare questa emergenza in crescita, ” Il carcere non deve fare passi indietro”.
Ed è per questo che l’associazione conclude il suo interessante Rapporto con delle proposte costruttive. Suggeriscono di ripensare al codice penale italiano, ampliare il ricorso alle alternative al carcere nel loro complesso, sradicando quell’idea carcerocentrica che vede nella detenzione il solo modello di espiazione della pena.
La normativa sulla droga, inoltre, va radicalmente ripensata, sostituendo la repressione penale con un approccio integrato di politiche sociali, anche attraverso il potenziamento dei servizi socio-sanitari dedicati alle dipendenze. La tossicodipendenza in carcere va inoltre affrontata con strumenti adeguati, con interventi di riduzione del danno e le azioni di sostegno. E ancora, Antigone punta nell’utilizzo delle nuove tecnologie, nel mettere in rete le buone pratiche sanitarie così da massimizzare e uniformare, anche nella gestione ordinaria delle carceri, le garanzie del diritto alla salute.
Il carcere non può diventare un luogo di morte, ma di rieducazione affinché il detenuto possa nuovamente reinserirsi nella società in modo sano.