Il dissesto del Comune di Catania ha tanti padri

Luigi Albino Lucifora*

Sulla disastrosa situazione finanziaria del Comune di Catania e di altri Enti locali in Sicilia molto è stato detto e riportato dalle testate giornalistiche.  Il cittadino, ormai più informato, rispetto al passato, tramite i numerosi mass-media, partecipa alla vita pubblica non più da yes-man, ma in modo attivo, per cui, di fronte alla citata questione, si pone degli interrogativi, quali: ma tale disastro, con gravissimo nocumento per i cittadini (meglio tradotto con quel famoso detto “ed io pago”, anche se in quel momento si era inconsci), chi l’ha causato? Chi sono i responsabili? Come mai gli organi di giustizia, a distanza di anni, nonostante varie segnalazioni, non li hanno ancora individuati? Ed ancora, valeva la pena di fare ricorso contro il recente deliberato dalla Sezione di controllo della Corte dei Conti, organo collaborativo, che ha semplicemente rilevato, attraverso la documentazione acquisita, un “deficit strutturale” di un miliardo e seicento milioni di debiti e nel contempo ha indicato i mezzi per venirne fuori? E’ possibile, in caso di giudizi, costituirsi parte civile attraverso appositi comitati civici?

Se pur in modo molto succinto, al fine di una migliore comprensione, è da dire che l’inizio di tale disastro avviene alla fine degli anni ’70, e, guarda caso, coincide con il baluginamento nella mente dei politici dell’idea di dare piena autonomia agli Enti locali, con graduale scomparsa, poi divenuta totale, dei controlli esterni statali e regionali. E così avvenne. In quel periodo, tolta quella morsa, nacquero le “allegre brigate” con sperpero di denaro pubblico e ricerca dell’“effimero”. Alle sporadiche richieste da parte di amministratori più riflessivi, ad interventi per le scuole, per le strade, per la sicurezza, etc., la risposta era sempre quella: bisogna realizzare cose visive, goliardiche, in modo che la gente possa divertirsi con un ritorno di voti (così, carnevali con troupe da Rio, feste con sfarzo pagano, alcune con parvenza di religiosità, assoluto silenzio sugli evasori e quant’altro), per il resto? “Pensa Dio”.

Purtroppo non è stato così; ne sono testimoni i crolli dei ponti, il 90% di scuole a rischio sismico, le strade che diventano torrenti e viceversa. Un flagello. Non è superfluo rilevare anche che il legislatore, nel sancire l’autonomia degli Enti, in modo puntuale, aveva loro additato gli strumenti tecnico-finanziari, persino di natura privatistica, a cui ricorrere al fine di autogestirsi con sufficienza ma nello stesso tempo, a chiare lettere, faceva intendere che gradualmente sarebbero venuti meno i trasferimenti esterni ad adiuvandum per porre fine all’era del “saprofitismo”, tra l’altro, contrastante con lo stesso concetto di autonomia.

Tali mezzi utilizzati con molto profitto nel resto della Penisola, in Sicilia, invece, o sono stati ignorati o sono stati utilizzati “ad artem” per costruire carrozzoni di reclutamento a servizio della politica-partitica con ulteriore “camuffato” sperpero di denaro pubblico. Un freno a questo disdoro, i cui autori dovrebbero indossare un “burka” ma senza velo per guardarli negli occhi, viene posto dal Legislatore nel 2000 col d.leg.vo n. 267. Purtroppo l’intervento è stato molto tardivo (i motivi? Sono stati sempre celati), per cui non ha potuto impedire l’eclatante ammasso di “debiti fuori bilancio “che oggi si concretizzano nell’acclarato “dissesto finanziario”. Ci si rende conto che per gli Amministratori nuovi di zecca, trattasi di un’eredità difficilissima che richiede effrazione col passato e molta resilienza.

A questo punto, sembra quanto meno poco giusto affermare che le principali cause del predissesto vanno attribuite al mancato pagamento dei tributi da parte del 50% di cittadini ed alla riduzione dei trasferimenti statali, di cui, fra l’altro, si era già stati allertati. Per i “c.d. evasori” sopra citati è ormai noto che da quel 50%, tolto l’1% di furbetti, il 49% è costituito da persone che vivono nella miseria o nella quasi povertà, in quanto, anche se con modeste retribuzioni, a causa della spirale inflattiva, sono state ridotte a “nullatenenti”. Ora è possibile che chi ha originato la miseria debba attingere da essa? “Nemo locupletari potest cum aliena iactura”, dicevano saggiamente i latini. Non è nemmeno esatto, con forzato abuso di credulità, persuadere i cittadini che solo con un contributo straordinario dello Stato si possa uscire dal baratro. Nel ricordare che analoghi aiuti nel passato hanno fatto cilecca, c’è da aggiungere che trattasi di interventi che non hanno alcunché di strutturale ma costituiscono solo palliativi per affrontare contingenze del momento e che formano ulteriori debiti in aggiunta agli esistenti, di cui risponderanno le generazioni future. C’è anche da considerare che lo Stato, per il principio della par condicio (non possono esistere cittadini di prima e seconda categoria, a seconda dell’entità demografica) dovrebbe pensare agli altri Enti, versanti nelle medesime condizioni; da ultimo anche alla Regione che, recentemente, ha invocato norme a salvaguardia.

Ma gli Enti che si sono comportati in modo virtuoso, cosa potrebbero pensare? … che sono stati dei fessi? A prescindere, come può affrontare tale disastro uno Stato che ha riportato il deficit al 2,4% al fine di venire incontro alle carentissime primarie esigenze pubbliche, a cui si aggiungono le sfortunate, impreviste, sopravvenute calamità naturali? Cosa si potrebbe rispondere alla Sezione Centrale della Corte dei Conti, che con formale nota ha “invitato” il Parlamento a desistere da tali interventi, che in violazione della Costituzione, come una mina, farebbero saltare i cardini su cui poggia la finanza pubblica, naturalmente con ulteriori aggravi per la popolazione. Chi vivrà vedrà.

Di fronte a tali realtà inconfutabili cosa si decide? Fare ricorso contro la Corte dei Conti. A cosa servirà? Stante alla stragrande maggioranza di cittadini e a molti diversi esperti nel settore “a nulla”. Persino qualche originario sostenitore ha sentito il dovere di precisare, a distanza, che lo stesso, in caso di accoglimento, costituisce solo un passettino “in quanto, senza soldi non si canta messa”. Ma in avanti di che cosa? Di fronte ad un documentato deficit strutturale? Ai cittadini “non evasori” che pagano i tributi al massimo? All’impossibilità di assicurare i servizi essenziali? E via discorrendo.

Solo perdita di tempo che ha causato – e continua a causare – il pagamento di ulteriori interessi sui debiti, spese di giudizio, etc. con “ingrassamento” della massa passiva. Tutto ciò in attesa di un ipotetico contributo straordinario dello Stato che sicuramente non è la via del risanamento. Di contra s’è fatta balenare l’idea che la dichiarazione del dissesto sarebbe stato un suicidio, facendo perno sul paventato aumento della disoccupazione. Nessuno può negare che con essa si va incontro a negatività (che poi sono eguali a quelle del predissesto). In ogni caso, però, si entra nel campo delle certezze e perché no, ci si avvantaggia di non indifferenti positività. Non a caso, autorevoli in materia hanno sostenuto che, in casi estremi, la citata dichiarazione è l’unica via prodromica al risanamento.

La prova è data dai diversi Comuni che ne sono usciti fuori con successo. E’ vero che sono stati effettuati pagamenti ridotti di una buona percentuale ma è anche vero che sono stati felicemente accettati dai creditori, i quali aspettavano da decenni (“meglio l’uovo oggi che la gallina domani”). Ma quel che più conta è che viene interrotta la nefasta produzione di interessi e rivalutazione monetaria; vengono poste nel dimenticatoio le anticipazioni di cassa una volta tanto amate; vengono resi vani i pignoramenti e via di seguito. Non è da poco. Da ultimo il Comune di Caltagirone, uscito fuori dal dissesto, gestisce una grossa cifra derivante dall’attività svolta dalla Commissione Straordinaria di liquidazione, che serve fra l’altro per pagare integralmente gli eventuali debiti residui e serenamente ha approvato un bilancio in totale equilibrio e sta stabilizzando tutti i precari.

Per tutto questo, non è necessario l’intervento di un demiurgo ma occorre solo molta buona volontà e oculatezza professionale e mettere in atto i rimedi straordinari o extra ordinem che vanno oltre quelli tipici previsti dalle norme finanziarie e indicati dalla stessa Corte. Rimedi che, quegli enti, ora virtuosi, in modo repentino, fin dalla fase del predissesto, hanno inventato, resi pubblici, attraverso un vero tazebao (autovincolandosi nei confronti della cittadinanza) e poi applicati con successo.

Alcuni sono di modesta entità, tale poter suscitare ilarità ai “soloni della scienza” ma, siccome ogni “ficateddu di musca fa sustanza” in una famiglia di estrema indigenza e che è alla ricerca del solo pane quotidiano, hanno anch’essi dato un significativo contributo. Altri, invece, sono di estrema rigorosità, che come una cinghia troppo stretta, possono mozzare il fiato … ma alla fine ne vale la pena. Certamente, gli Amministratori di “quel passato” potrebbero essere definite “stranezze”, ma oggi, trovandosi sull’orlo del precipizio, rientrano nell’assoluta normalità; anzi, si ritiene, che la loro inosservanza potrebbe causare danno erariale di cui si risponde a livello personale.

A mo’ di esempio, tra quelli di modesta entità, se ne fa accenno di qualcuno: dimezzamento delle indennità di carica e gettoni di presenza; interruzioni di tutte le collaborazioni esterne, anche se previste dalla legge (addetti alle segreterie del Sindaco, assessori e consiglieri comunali, esperti, uffici di staff, etc., tranne che si provveda a spese dei diretti fruitori), con assegnazioni di tali “normali” servizi al personale di ruolo; privazione dell’uso delle auto blu, assegnandole ai servizi essenziali (vigili e protezione civile, etc.), con conseguente utilizzo, per i fini istituzionali, di mezzi pubblici o di auto proprie; pernottamenti in strutture ricettive  sufficienti, possibilmente in B&B; eliminazione di tutte le spese di rappresentanza ed altro ancora che rasenta il superfluo.

Ed ora andiamo al “punctum pruriens”: la ricerca di responsabilità. E’ compito degli Organi di Giustizia. Si può solo dire, a tutela dei cittadini, che la sezione di controllo della Corte dei Conti, contro cui si è fatto ricorso, come si legge nel suo deliberato, ha trasmesso la documentazione alla Procura della Repubblica per gli aspetti penali, ed alla “sezione giurisdizionale” della stessa Corte per quanto riguarda gli eventuali danni erariali. Ciò ha fatto perché, riscontrando gravissime criticità, ha richiesto il vaglio delle condotte degli autori. Certo, per il principio della continuità-amministrativa, gli Amministratori (rieletti o meno), eccetto prescrizioni e decessi, ne risponderanno e come componenti dei Consigli (organo di controllo) e delle Giunte (organi di gestione).

Gli unici a non incorrere in responsabilità sono gli eletti per la prima volta ma nell’intesa che gli stessi, dal loro insediamento, non consentano spese inutili, non finalizzate alle esigenze primarie dei cittadini amministrati. Tutto il resto produrrà danno erariale, per il quale risponderanno tutti. Il reciproco “scaricabarile” fra Amministratori, con riferimento a fatti del passato, è del tutto inutile, forse aggraverebbe di più la situazione, stante al principio che “simul stabent aut simul cadentes”. Occorre, all’uopo, trovare decisioni ragionate e possibilmente unanimi, in quanto v’è in gioco soprattutto la pelle della gente. S’è sicuri che oggi la cittadinanza, proprio perché molto documentata e partecipe, non “premierà” più, come nel passato, gli amanti dell’effimero ma chi, invece, la farà uscire dal tunnel.

*già Segretario Generale di Comuni e Province regionali

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