Il mozzo diventato chirurgo


Salvo Reitano

Quello che sto per raccontare è un fatto realmente accaduto. Piacerà sicuramente al direttore, Daniele Lo Porto, e sono certo a tanti di voi che seguite questi elzeviri domenicali.
Parla di mare, di onde e di sale, di bisturi e vele stracciate, di alberi maestri e larghi orizzonti, di fame, sacrificio e abnegazione, del navigare a vista e non perdere mai la rotta.
Ho sentito questa storia mezzo secolo fa dalla bocca di mio padre. Io ero poco più che un bambino e lui cominciava a insegnarmi la vita con esempi magistrali. Restavo ad ascoltarlo rapito e affascinato.
Siamo a Brindisi, 1938. Mio padre ha ventiquattro anni e serve la Patria per la Regia Marina Italiana.  È a una cena insieme ad altri ufficiali. La sera è rigata di pioggia, il cielo si illumina di lampi e rimbomba di tuoni. Papà siede accanto a un vecchio chirurgo di rara fama, dalla voce magnetica e partecipe.
L’uomo ha i capelli scompigliati da libero pensatore con un accenno di barba bianca: accuratezza di giudizio, disciplina ed esperienza. Mani sicure e sperimentate perché l’altro uomo è sempre un santuario di prodigi, qualunque sia il colore della sua pelle, la provenienza geografica, la classe sociale di appartenenza ed esige levità operatoria, destrezza e cognizione del mestiere.
Ci sono tanti modi di essere un chirurgo che si avventura col bisturi nel mistero del corpo umano nel chiuso ovattato di una sala operatoria. Ma questo della modestia consapevole e del sacrificio costante, perché  il servizio all’uomo malato sia veramente reso al meglio, mi sembra il repertorio più idoneo.
La cena va avanti tra una portata e l’altra quando mio padre, facendosi coraggio, chiede al vecchio chirurgo, guardandogli balenare le lenti, dove mai avesse appreso la misura di sé.
E lui tracciando un segno con la penna sull’etichetta del vino bianco per stabilire a se stesso “oltre non si va”, comincia a narrare una storia.
Da ragazzo, facciamo sui quindici, chiese al padre – agricoltore – di potersi imbarcare sui velieri da carico: quegli scafi con l’albero maestro scorticato e le vele rozze e pitturate, che lasciavano la costa italiana per traversare l’Adriatico e riempire la stiva di legna in Jugoslavia. Non fu facile convincere il genitore che come onde conosceva solo i solchi arati della terra pugliese. Alla fine cedette. Lo studentello s’ingaggiò come mozzo, l’ultimo dell’equipaggio, l’obbligo di faticare e tacere.
Aveva il compito di rassettare, ripulire, salire in testa all’albero per scrutare l’orizzonte notturno, se mai si incrociassero altri natanti nella notte, servirsi per ultimo del pasto comunitario e nei momenti di pausa nettare la pipa al capitano.
Mentre i marinai affondavano le forchette di stagno nel tonno e nelle aringhe, il mozzo aspettava la sua parte, come in un poema omerico. Alla fine veniva chiamato a sfamarsi. L’acqua usciva da un grosso barile di rovere annerita dalla forza del rollio. La cuccetta era a prua, fra uomini ruvidi e taciturni con le facce bruciate dal sole e dalla salsedine. La notte regalava fulgori di stelle. Non c’era nemmeno il sestante e la rotta si teneva a vista.
Le necessità fisiologiche si placavano montando coi piedi sui parapetti e sporgendo il posteriore a mare; bastava tenersi saldi a due cime per non finire in acqua. Il resto dell’equipaggio ignorava la scena.
Certe volte, con il vento di bonaccia, la traversata durava una settimana. Il sole a martello sul veliero. Si sentiva stridere il fasciame.
Il ragazzo sbarcava a settembre per far ritorno sui libri. Cresceva dentro. Andò così per alcuni anni, fino all’università.
Mio padre mi raccontò di avergli sentito dire: “E’ stato il mare a darmi la laurea e sono chirurgo perché so orientarmi con le stelle: vedo, intuisco, scelgo”.
Il tempo scorre, i giorni si sovrappongono. Papà ha lasciato questa terra da tempo e naviga per chissà quali mari e verso chissà quali  imperscrutabili orizzonti. Lo rivedo farmi l’occhiolino. Ci fissiamo a lungo perché gli occhi parlano. Non smettono mai.

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