Il vecchio operaio agricolo e il nuovo presidente


| Salvo Reitano |

Qualche tempo fa, nel giardino di un mio amico che vado a trovare ogni volta che voglio disintossicarmi dell’aria e della frenesia cittadina, ho conosciuto un vecchio operaio agricolo.
Già in pensione da tempo, siccome non riusciva a vivere senza far nulla e con le mani in mano, ogni santo giorno che Dio manda in terra lasciava la sua casa con gli strumenti del suo lavoro per essere utile dove serviva.
Potava i grandi cespugli di pittosfori modellandoli con le forbici fino a farne una sfera perfetta, tagliava  i rami degli oleandri che ogni anno si slanciavano fioriti verso il cielo. Zappava nell’orto, spargeva il concime ai piedi delle piante, curava le malattie che aggredivano le foglie, costruiva muri, sistemava tetti, riparava impianti di ogni tipo, fossero elettrici o idraulici. Era, al tempo stesso: un contadino, un frutticoltore, un ortolano, un boscaiolo, un meccanico, un muratore, un carpentiere, un falegname, un idraulico.
Dovunque volgessi lo sguardo incontravo la sua presenza silenziosa. La piccola fiasca di vino appesa a un albero  mi parlava di un uomo d’altri tempi.
Presto mi accorsi, conoscendolo meglio, che in ognuno dei tanti mestieri portava la stessa curiosa passione, lo stesso scrupolo nel comprendere prima di agire, lo stesso desiderio di perfezione. Quasi che da quel lavoro preciso e fatto bene dipendesse la salvezza del mondo.
Io so fare pochissime cose: anzi, una sola cosa, e spesso mi assale se davvero la faccio bene. Per questo giravo incuriosito intorno a quest’uomo di fattura antica, mite e asciutto, che sapeva con meticolosa maestria posare le mani ovunque e farne scaturire il meglio. Così un giorno di luci alte, il cielo senza nuvole e il sole picco, gli chiesi dove avesse imparato tanti mestieri.
Dai contorni della sua faccia usci un moto di meraviglia: “Io sono un operaio agricolo”, disse d’un fiato. Poi aggiunse, guadandosi le mani indurite dai calli, quelle stesse mani abilissime che improvvisamente sembrarono goffe, come se la mia domanda avesse turbato l’equilibrio naturale del loro lavoro, che a lui piaceva fare tutto da solo.
Da solo e senza aiuto si era costruito la casa e aveva aiutato i figli a costruire la loro, mattone su mattone partendo dalle fondamenta. Solo l’impianto elettrico all’inizio, mi confessò, gli aveva dato qualche grattacapo, accorgendosi presto, una volta compreso il procedimento, che non c’era niente di più facile.
Bastava andare in giro e osservare come fanno gli altri: come si costruisce un tetto, come si pota un albero di ulivo, come si sparge il colore nelle pareti, come si prepara il cemento. “Ma ormai – continuò mentre un piccola ruga di fastidio si aggiungeva alle tante che negli anni gli avevano segnato il viso – imparare è diventato difficile. Tutti vogliono fare in fretta. Tutti tirano via. Vede quelle piante di eucalyptus? – disse indignato – chi li ha potati così è un criminale. Appena verrà una folata di vento più sostenuta i rami rimasti si schianteranno a terra”.
Non fraintendete, amici lettori. Io non ho nulla contro questo tempo ipertecnologico che molti accusano di ogni possibile crimine quasi fosse il più barbaro della storia del mondo. Non è così. Ma di una cosa è colpevole: ha sciupato e dissipato l’immenso tesoro di sapienza contadina e artigiana che le civiltà che ci hanno preceduto avevano costruito nei secoli.
Scaraventando milioni di contadini negli uffici e nelle fabbriche, imponendo loro i compiti di un robot inanimato, ha distrutto l’amore per il lavoro creativo e ben fatto. “Tutti tirano via” come dice l’operaio agricolo che cura il giardino del mio amico. “Tutti vogliono fare svelto”.
Sotto il falso nome di “specialisti”, dal dopo guerra a oggi, l’organizzazione del lavoro ha prodotto una quantità infinita di “generici” con i quali ci tocca fare i conti ogni giorno. Il meccanico incapace di capire un guasto, l’idraulico che non riesce a riparare una conduttura, l’elettricista smarrito tra i fili di una presa, il grande filosofo che non cura i nessi del suo argomentare, il critico letterario che non ha letto il libro che deve recensire, l’economista che si affida alla cosiddetta “finanza creativa” come ci si affida alle percentuali di vincita al centro scommesse sportive e il politico che protesta senza proposta e non conosce la realtà che vorrebbe modificare. Tutta questa brave gente lavora pensando ad altro con la presunzione di essere superiori al loro compito.
Qualche volta si riuniscono tutti insieme nei grandi congressi e nelle kermesse dei partiti e dei movimenti e lì blaterano sulla crisi dell’uomo moderno, sulla crisi economica e della famiglia, sulla disoccupazione e di erotismo, di giornalismo e letteratura, di eutanasia e religione. E mentre parlano, affollando i talk show televisivi, una fitta nebbia scende sopra di noi fino a farci dubitare se esistiamo veramente e che razza di mondo è quello che ci gira intorno.
L’immagine del vecchio operaio agricolo continuerà ad abitare la mia memoria e i miei pensieri perché contiene una verità della quale non riuscivo, fino a quel momento, a rendermi conto.
Era l’amore per il lavoro ben fatto, che mi attraeva? La precisione, lo scrupolo, il sacrificio, l’abnegazione per l’opera quotidiana? O era l’immagine in bianco e nero di una civiltà ormai ai titoli di coda come una parte di me stesso?
No, niente di tutto questo. Quell’uomo mi sembrava, al contrario, fortemente moderno. Il vecchio operaio agricolo sapeva fare tutto e, cosa ancora più incredibile, faceva tutto bene. Un dilettante che lavorava molto meglio di uno specialista. Era tutto nelle sue mani, diceva lui, in quelle mani indurite dal tempo e dal lavoro, piena di vene eppure agili, attente e precise.
Forse è tempo di tornare a quei dilettanti se non vogliamo perderci definitivamente. Forse sarebbe il caso che il nuovo presidente della Regione, prima ancora dei festeggiamenti, delle adunate di piazza, delle conferenze stampa, delle dichiarazioni altisonanti e prima ancora di occupare quella tanto ambita poltrona si recasse dal vecchio operaio agricolo, non per sceglierlo come consulente perché siamo sicuri che rifiuterebbe, ma per farsi spiegare come si fa a “non fare in fretta” e a “non tirare via” evitando promesse a mille e fatti a zero. A fare, in buona sostanza, per gli anni a venire, un lavoro preciso e ben fatto con scrupolo e curiosa passione. Perché da questo dipende la salvezza della Sicilia. Dubito che ciò accadrà ma lasciatemi dire che è un vero peccato.

 

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