Io non sono digitale

Io non sono digitale

di Erica Donzella
editor e scrittrice

La constatazione è inevitabile. DAD, smartworking, chat, zoommate. La mia vita è appesa a una connessione a internet, a gestire la mia emotività ci pensano due spunte blu, sostituzione di smorfie, sguardi, litigi. Sbloccare il cellulare pesando che qualcuno ti abbia cercata, renderti conto che non è così, e gestire l’ansia sociale attraverso pollici in su o cuoricini.

Nessuno mi ha cercata. La mia vita fa schifo. Perché è razionalmente plausibile pensare che, in questo momento delle nostre vite, il sistema emotivo che ci accompagna è sovrastrutturato e determinato da agenti tecnologici.

Vabbé, direte, siamo dentro una pandemia, come altro vorresti interagire? Per carità, nessuno sottragga prestigio all’avanzata tecnologica che, però, ci ha trasformati in una complessa rete di algoritmi. Se mi dovessero analizzare in questo momento il mio dna sarebbe metaforicamente composto da sistemi binari, 1 e 0. Addio prossemica, addio corpo che vive nei corpi, addio paranoie da interazione sociale.

C’è, però, una stanchezza di fondo che mi ricorda di essere un umanoide ancora in vita e che mi fa urlare voce bassa che io non sono digitale. Potremmo andare avanti così per mesi, certo. Ne avremo ancora per molto, ma arrivati a questo punto dovremmo avere già chiaro un concetto su tutti: questa qui non è esistenza piena, quanto un surrogato alternativo alla pienezza, e non può più bastare.

Facciamo un esempio pratico: avete conosciuto qualcuno durante il lockdown tramite app di dating o social. C’avete parlato per mesi, vi batteva il cuore ad ogni interazione, poi c’avete passato del tempo. È probabile che la vostra palpitazione sia scesa ad un livello insignificante dopo averci passato davvero tanto tempo, fino a generare relazioni nate e morte nell’arco di pochi mesi. Perché?

Perché, forse in quanto esseri muniti di corpo e sensi, ci è mancata l’interazione fisica in cooperazione con quella mentale, sin dalle prime battute. Ma qui andiamo oltre il lockdown: tutto questo può succedere sempre. Penso e credo fortemente che non si dovrebbe pigiare l’acceleratore dentro una macchina ferma e, accettare, in assoluta tranquillità che una pace dell’anima sia possibile nel vuoto. Almeno per un po’, come un bacino che attenda di svuotarsi per potersi riempire di nuovo.

Perché sono stanca d’essere digitale e di provare emozioni schermate e mediate da 1 e 0. Posso rimanere vuota finché la vita non tornerà a essere il casino di prima. Possiamo fermarci, per favore?

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