Katya Maugeri
Un chiaroscuro che delinea perfettamente il profilo di una condizione sociale precaria in cui vige una omertà di fondo, un silenzio diffuso. Mafia e religione. Un rapporto rafforzato – negli anni – dai cedimenti, dalle omissioni e dall’indifferenza di una parte del clero locale che ha alimentato il potere dei mafiosi che a lungo hanno fatto leva su questa neutralità per consolidare il loro impero.
“Un rapporto connaturato ad una cultura diffusa della quale si nutrono da una parte la Chiesa e dall’altra la mafia – spiega Francesco Forgione, giornalista, scrittore, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, durante la nostra intervista , in moltissime aree del nostro Paese dove la religiosità è legata alla cultura popolare e la Chiesa esprime un ruolo di istituzione di governo nel territorio, per le mafie è una necessità instaurare rapporti: nell’immaginario e nel simbolismo mafioso è necessario relazionarsi con la religione perché consente di affermare quella forma di separazione di uomo d’onore e di trascendenza da quel ruolo, rispetto alla persona normale”. Un rapporto, quello tra mafia e religione che serve da una parte a determinare consenso sociale nel sistema di relazione esterno alle mafie, dall’altro avere una funzione di potere per costruire un apparato ideologico. Si avverte una nuova consapevolezza, il bisogno di abbattere il muro dell’indifferenza, ma sono tante le aree in cui questo rapporto è ancora presente, legato inoltre in ambito economico e finanziario: poiché in alcuni territori boss offrono soldi per le processioni religiose. “Ma un aspetto che interessa spesso i media – continua Forgione – è l’inchino davanti la casa del boss: dovrebbe importarci ben poco, è banale, e serve solo per realizzare un titolo ad effetto sul giornale. Occorre, piuttosto un lavoro di riforma delle pratiche della Chiesa”.
La Commissione antimafia, nella sua ultima relazione, ha dedicato un interessante capitolo a questo legame partendo da un momento importantissimo: dalla predicazione di Papa Francesco contro l’illegalità e la corruzione, culminata nella scomunica ai mafiosi a Cassano allo Jonio. Parole che segnano una netta cesura con le omissioni del passato contribuendo a rafforzare, nella comunità dei credenti e non, la consapevolezza che la fede non può essere silente, indifferente o inerme di fronte all’illegalità e alla violenza. Una rottura non attuata in tutti i territori: non lo ha fatto la Sicilia, dopo la morte di padre Puglisi, il prete che a Brancaccio liberava i ragazzi dal controllo dei mafiosi, né la Campania dopo l’assassinio di don Peppino Diana che in una lettera scritta nel Natale del ‘91 insieme a altri sacerdoti affermava: “Per amore del mio popolo non tacerò” e aveva denunciato il sistema criminale e i traffici della camorra, richiamato la politica alla sua responsabilità ma chiedeva anche alla Chiesa di essere protetica “ai nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”. “Dio ha detto una volta, non uccidere. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è vita, verità e vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio”, un grido di dolore pubblico pronunciato da Giovanni Paolo II ad Agrigento il 9 maggio del ’93, a un anno dalle stragi di Capaci e via d’Amelio. Uomini di Chiesa che non hanno accettato alcun compromesso, cercando di raccontarla la mafia, nella sua crudeltà, descrivendola come una strada senza ritorno.
C’è chi, quindi, ha scelto sempre di schierarsi, di non accettare quel silenzio fastidioso che per anni ha alimentato menti omertose e costruito un percorso alle menti criminali, nonostante sia ancora radicata l’idea di delegare allo Stato il compito di combattere il fenomeno mafioso.
Un cambiamento, un risveglio delle coscienze è certamente in atto, uomini come don Luigi Ciotti rappresentano l’esplicita scelta di campo nella lotta contro l’illegalità e i poteri mafiosi, l’educazione alla legalità nelle scuole, il lavoro di moltissimi giovani che lavorano sulle terre confiscate, preti che si ribellano, un percorso di partecipazione e condivisione che nei fatti rappresenta la speranza.
Una mafia che ostenta una presa di posizione e che in varie zone del Paese cerca di proporsi come uno Stato alternativo a quello di diritto, alimentando il terrore, il disimpegno e la corruzione.
All’interno della Chiesa questa nuova consapevolezza diventa sempre più forte, diretta, dirompente. Come il discorso di Papa Francesco in Calabria: ” La ndrangeta non è in comunione con Dio e i mafiosi sono scomunicati”. “Un segnale importantissimo – spiega Forgione – ” proprio perché con la ndrangeta il rapporto con la religione è ancora più forte che in cosa nostra. La riunione di tutti i capi, storicamente, si tiene nei giorni della festa della Montagna a San Luca nel santuario della Madonna di Polsi, hanno un santo protettore – San Michele Arcangelo – e il livello più alto della loro organizzazione si chiama la Santa, quindi in questo caso anche nell’uso dei termini si evince un un rapporto viscerale.
“Quello che serve è che la Chiesa incarni un ruolo di denuncia verso quei meccanismi mafiosi, e che possa spingere il cittadino a un principio di responsabilità concreta e distinta dalla volontà di agire in prima persona, senza mai voltarsi dal lato opposto. Abbandonando quell’omertà complice di cui amano nutrirsi, “alimentata tutt’oggi dalla scarsa credibilità di una alternativa e dell’impossibilità di praticarla, però c’è tanto di buono: prima l’omertà apparteneva tutta la Chiesa oggi quel muro si è rotto”.
Lottare contro la criminalità organizzata significa trasformare, bonificare e costruire un futuro lontano da ogni corruzione, distante dalla disuguaglianza costruendo una coscienza civile, l’unico percorso che potrà realmente liberarci dalla mafia.