La diffamazione come forma di violenza contro le donne

La diffamazione come forma di violenza contro le donne

di Alfina D’Oca
avvocato

L’art. 595 c.p., sotto la rubrica “Diffamazione”, afferma: “Chiunque… comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro”.

Il reato è aggravato nell’ipotesi in cui l’offesa venga arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, nonché nell’ipotesi in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato. 

La disposizione normativa trova il suo fondamento nella necessità di tutelare la “reputazione” di ogni persona contro ogni azione volta a gettare discredito sulla stessa. Uno degli elementi costitutivi del reato è l’assenza della persona offesa, con la conseguenza che si determina una maggiore potenzialità offensiva data dal fatto che la stessa non possa difendersi. Non è necessario che i fatti riportati corrispondano a verità per potersi escludere il reato, in quanto il legislatore ha inteso colpire le dichiarazioni che abbiano portata offensiva, indipendentemente dal fatto che esse siano veritiere o non veritiere. E’ necessaria la presenza di almeno due persone in grado di ascoltare le affermazioni offensive e, potenzialmente, di diffonderle ulteriormente. Il comportamento che integra il reato può realizzarsi con qualsiasi mezzo e in qualsiasi modo purché risulti idoneo a diffondere l’offesa alla reputazione altrui.

Tale fattispecie criminosa si presta a molteplici commenti in relazione ai suoi elementi costitutivi e per ciascuno di essi esiste una copiosa giurisprudenza. Ma, in questa sede, si vuole approfondire il tema mettendo sotto i riflettori come questa forma di reato sia divenuta sempre più spesso uno strumento volto a colpire e denigrare “la donna” offendendo la sua reputazione e divenendo così una forma di violenza (certamente non l’unica e neppure tra le più gravi). La diffamazione come forma di violenza contro le donne segue spesso un copione volto ad intaccare la reputazione sociale della vittima, divenendo espressione spesso, ma non solo, di una cultura maschilista che si nutre di stereotipi di genere. La stessa forma di violenza a volte viene perpetrata anche da una donna contro un’altra donna, assumendo così degli aspetti fortemente trasversali. Il fenomeno acquista forme particolarmente diffusive in relazione all’avvento dei social network ed alla loro capacità di raggiungere un numero indefinito ed incontrollato di persone.

Viviamo nell’era digitale e comunicare è diventato più semplice e veloce. Pubblicare una notizia sul web, scrivere un post sui social network, fare un commento su una chat, significa utilizzare strumenti in grado di raggiungere un numero imprecisato di persone. Tali mezzi di propagazione delle notizie amplificano notevolmente il messaggio diffamatorio, aggravando tale fattispecie criminosa.

La giurisprudenza equipara i social network ad un mezzo di pubblicità, riconoscendo quindi la diffamazione nella forma aggravata quando “il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o Facebook […]” (Cass. pen., V sez., n. 7904/19).

Negli ultimi anni assistiamo ad un aumento delle sentenze di condanna per il reato di diffamazione commesso con l’uso di questi mezzi di pubblicità nonché in riferimento alle vittime di questo reato che spesso appunto sono “donne”. Sul sito internet di Amnesty International Italia si legge: “La diffusa disuguaglianza e la discriminazione nei confronti delle donne, elementi propri della nostra società, non scompaiono: semplicemente passano dal mondo fisico al mondo digitale. Gli atti di abuso e violenza contro le donne perpetrati online sono un continuum della violenza di genere offline”. Il problema di cui trattiamo ha assunto quindi la forma della cd. violenza online contro le donne tanto da divenire una forma di violenza particolarmente rilevante.

Le vittime di post e commenti offensivi sono spesso donne in vista o che riescono a realizzarsi professionalmente e ad affermarsi nel lavoro che svolgono. Il modus operandi consiste spesso nel dare l’input con un commento strumentalmente provocatorio al fine di incitare e scatenare ulteriori commenti denigratori. Il fenomeno riguarda spesso donne particolarmente esposte per la professione che svolgono ma può riguardare qualunque donna assumendo così una portata molto vasta e investendo aspetti delicati e privati che rientrano nella sfera della sessualità, dell’orientamento sessuale, dello stato coniugale. L’azione criminosa si realizza gettando discredito sulla reputazione, attraverso la pubblicazione di dati personali, informazioni riservate, video e foto. Notevole diventa l’incidenza e l’impatto che tali forme di violenza hanno sulle vittime.

Occorre chiarire e sottolineare che pubblicare commenti o contenuti denigratori e lesivi della reputazione di una persona sui social può essere estremamente semplice attesa la mancanza di un filtro data dall’assenza della persona vittima delle offese, ma spesso si sottovaluta che tale comportamento corrisponde alla commissione del reato di cui trattasi. Senza dimenticare il fatto che, in relazione alle condotte poste in essere, potrebbero essere commessi altri reati come la minaccia, la tentata estorsione, lo stalking informatico ecc. I pettegolezzi, le dicerie, la capacità di strumentalizzare fatti o parole pronunciate in determinati contesti e poi riportati sui social al fine di ledere la reputazione di una donna e di denigrarla sono atti di violenza contro la stessa. 

Certamente l’argomento è molto ampio e meriterebbe di essere approfondito con attenzione. Le considerazioni svolte possono essere solo spunti di riflessione per poter utilizzare gli strumenti nuovi di comunicazione con responsabilità, in maniera tale che tutte le volte in cui decidiamo di fare commenti e pubblicare post possiamo tenere a mente che non bisogna mai superare il limite tra ciò che è legale e rispettoso nei confronti degli altri e ciò che invece può rasentare la commissione di reati. Con l’auspicio che questo spazio pubblico e digitale diventi un luogo più sicuro anche attraverso una legislazione consapevole.

Send a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *