La laurea è ancora una barricata contro la disoccupazione, ma ci sono tante contraddizioni

La laurea è ancora una barricata contro la disoccupazione, ma ci sono tante contraddizioni

di Saro Faraci (prima puntata)

Laurearsi conviene ed è un investimento per la vita. Laurearsi poi in ingegneria gestionale, in ingegneria chimica e in scienze statistiche conviene ancor di più, sia per le prospettive occupazionali che di remunerazione. A sostenerlo è la ricerca University Report appena pubblicata da Osservatorio Job Pricing, in collaborazione con Spring Professional. Lo studio, a carattere divulgativo sul valore dell’istruzione nel mercato del lavoro italiano, è stato realizzato assumendo come riferimento il database interno dell’Osservatorio. Una banca dati costituita da oltre 450.000 profili retributivi del settore privato, tra i quali 100 mila profili di lavoratori laureati.

Il quadro di partenza però non è dei più confortanti. In Italia, solo il 19,3% della popolazione ha un titolo accademico contro il 36,9% medio dei paesi OECD. Se si guarda alla fascia giovanile, ovvero tra 25 e 34 anni, la percentuale sale al 27,7% ma è sempre lontana dalla media OECD pari a 44,5%. Addirittura in questa speciale classifica, l’Italia è penultima avanti solo al Messico, mentre in Corea, al primo posto nel ranking, la quota di popolazione 25-34 anni con educazione terziaria è pari al 69,6%. Secondo l’organizzazione mondiale per la cooperazione e lo sviluppo economico “i giovani italiani hanno bisogno di ulteriori incentivi per iscriversi all’università e per laurearsi. In Italia, gli adulti con un’istruzione terziaria guadagnano il 39% in più rispetto agli adulti con un livello di istruzione secondario superiore”.

C’è un quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione, varato dal Consiglio Europeo nel 2009, che ha stabilito una serie di obiettivi da raggiungere a livello continentale entro il 2020 in termini di accessibilità all’istruzione e alla formazione, durata degli studi, tasso di abbandono e livelli occupazionali per livello di istruzione. L’Italia purtroppo rimane indietro rispetto agli altri Paesi. Spende meno degli altri per l’istruzione, appena il 3,6% del PIL (contro una media OECD del 5%). Per i titoli di studio terziari investe il 25% in meno della media dei paesi OECD. Il tasso di abbandono prematuro di istruzione e formazione superiore è superiore al resto dell’Unione Europea: 14,5% contro il 10,6% medio europeo. L’Italia ha ancora un triste primato: continua ad avere la maglia nera per numero di NEET, giovani tra 20 e 34 anni che non studiano e non lavorano: in base agli ultimi dati disponibili al 2018, erano il 28,9% a fronte di una media europea del 16,5%.

A fronte di numeri così ridotti, studiare e laurearsi però conviene ancora. In base ai dati Istat al 2019, assumendo come riferimento la popolazione in età lavorativa cioè fra 15 e 64 anni, chi è in possesso di laurea e qualcuno anche in possesso di titolo post-lauream ha un tasso di occupazione pari al 78,9%. Si tratta di quasi venti punti percentuali in più rispetto alla media di chi lavora. Inoltre, soffre meno il problema della disoccupazione: il tasso di disoccupazione dei laureati è infatti 4,6% rispetto all’8,9% di chi invece ha soltanto un diploma. Se si guarda solo alla fascia 25-34 anni, i numeri si modificano leggermente, ma la laurea è sempre un salvacondotto importante per il lavoro: il tasso di occupazione è il 67,8% contro il 40,8% di chi non possiede alcun titolo di studio o ha soltanto la licenza elementare.

Nell’ultimo decennio, il possesso del titolo di studio accademico è stato un elemento di forte tenuta sul lato occupazionale. Nel periodo 2009-2014, complice anche la forte recessione economica, la disoccupazione è aumentata diffusamente, ma si sono registrati tassi minori fra i laureati. Nel quinquennio successivo, anche per via di una leggera ripresa economica, è calata diffusamente la disoccupazione, ma con valori più elevati fra i laureati. Per effetto di un quadro economico molto sofferto, oggi il tasso di disoccupazione dei laureati è pari a quello di dieci anni fa, mentre per gli altri livelli di istruzione (e in termini generali) la disoccupazione oggi è sicuramente più elevata rispetto al 2009. Cosa succederà dopo il Covid-19 è ancora presto per prevederlo, ma non c’è dubbio che la laurea rimarrà sempre una “barricata” contro la disoccupazione.

C’è un dato sconfortante però. Nel 2019, sono circa 370 mila i NEET laureati, mentre i rimanenti 2 milioni e 600 mila circa non possiedono una laurea. In pratica, in Italia ci sono quasi 3 milioni che non studiano e non lavorano, collocati prevalentemente nel Sud, ma soltanto il 18% è fra i laureati.

Questi dati risultano interessanti se messi a confronto con un altro fenomeno caratteristico, secondo l’Osservatorio Job Pricing. Parliamo del fenomeno della “sovra-istruzione”, cioè quando il titolo di studio posseduto da una persona è superiore a quello richiesto per accedere al mercato del lavoro o per svolgere il lavoro in cui è occupato. Per l’Istat  – dati al 2019, riferiti a giovani lavoratori laureati fra 25 e 34 anni – 4 lavoratori su 10 risultano sovra-istruiti, mentre il dato scende a 1 lavoratore su 3 nel caso di lavoratori laureati sopra i 34 anni. Tecnicamente è un “mismatch” ovvero una non corrispondenza fra contenuti del titolo accademico e mansioni svolte. Si tratta di un mismatch persistente se è vero che, a più di sei anni dall’assunzione, fra i lavoratori con laurea circa il 40% risulta ancora occupato in mansioni sottodimensionate rispetto al titolo di studio. Il fenomeno è destinato ad accentuarsi anche nei prossimi anni se persisteranno una serie di condizioni ostative. In primis, c’è il ridotto numero di laureati in discipline STEM (science, tech, engineering, mathematics). Poi la assunzione avviene prevalentemente nelle micro e piccole imprese e per lo più con contratti di lavoro part-time. Infine l’ingresso nel mercato del lavoro si realizza per mezzo di canali di intermediazione non formali e non strutturati, come ad esempio la rete di parenti e conoscenti.

In pratica, il 42,1% dei giovani laureati lavora sì, ma svolge oggi un lavoro per cui potrebbe essere sufficiente un livello di istruzione inferiore a quello posseduto. E’ una contraddizione in termini, perché il fenomeno della “sovra-istruzione” si combina ad una percentuale di laureati ancora bassa rispetto alla media OECD, ma è anche un fatto segnaletico importante. Chi si laurea nelle discipline scientifiche, in termini occupazionali e di sviluppo di carriera e retribuzione, è come se ricevesse un premio, se è vero che, come detto all’inizio, le lauree in ingegneria gestionale, ingegneria chimica e dei materiali e in scienze statistiche sono quelle più remunerative per prospettive di occupazione e di reddito.

Naturalmente i dati appena riportano evidenziano alcuni problemi. Due fra tutti. Il primo problema è che l’offerta formativa a livello universitario non pare ancora adeguatamente allineata con la domanda di competenze da parte delle imprese. Colpa delle imprese che non hanno idee chiare e giocano al ribasso o demerito delle Università che volano troppo in alto, o magari spesso in astratto? Un secondo problema è la debolezza della capacità di orientamento nei confronti dei giovani, non solo verso l’istruzione terziaria, ma anche verso quelle discipline per cui c’è maggiore richiesta nel mercato del lavoro.

Ma quali sono queste lauree remunerative, oltre a quelle richiamate all’inizio? E soprattutto dove si conseguono? A queste ed altre domande risponderemo nel prosieguo di questa indagine

prima puntata

 

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