di Mario Pafumi
La vita di tutti i giorni può essere una trappola mortale o diventare un mondo ricchissimo, popolato di passioni, delusioni, sentimenti, dolori, impegno. Cosa accade quando il poeta la osserva con la lente del disincanto e dell’ironia, con il gusto un po’ amaro di cose perdute, con una sorta di nostalgia agrodolce? La gente dice che più si invecchia più sembra che il tempo sfugga. È stato scritto: la nostra vita è solo un sospiro di tempo, ma come percepiamo noi, veramente, il tempo?
“Ci coglie sempre/l’eco del tempo/che non vogliamo /più decifrare./Vincitori d’altri/vincitori ipocriti/vincitori d’uomini”(“Dalla mia Casa”) In poesia la complessità, la vertiginosa ricchezza dell’anima. C’è l’infinito mistero, ma anche il dramma di chi custodisce i mille volti della vita. “E bisognava certo/essere in piazza,/nei covi, negli uffici,/alle caserme,/nei carceri,/ negli ospedali:/non per visitare/ma per sentire/il peso della Storia,/e penetrare/ nella palude umana./E bisognava forse/come usa il vento/discutere con l’erba e con il sole/“(“Era il tempo”). Cesare Messina, figlio del mare dal quale ha tratto l’amore per la filosofia che permea e stravolge in un continuo divenire la sua poesia, stavolta comincia a fissare i suoi versi da sempre sfuggenti, non a caso in premessa cita M. Heidegger: “La poesia appartiene al medesimo ordine della filosofia e del suo modo di pensare. Ma il poetare è il pensare non sono a loro volta identici… nella poesia il poeta parla sempre cose se per la prima volta egli esprimesse interpellasse l’assente…”. Messina riappare improvvisamente sulla scena poetica dopo anni di silenzio di meditazione e di studio, con la sua ultima fatica poetica “La lusinga dell’essere e il continuo ritorno”, edito da Il Convivio qualche mese fa.
Ripostese di nascita e giarrese di adozione, appartiene ad quel gruppo di poeti che negli anni 80 avrebbero potuto creare un movimento autoctono tutto etneo, purtroppo disgregato nel tempo, che adesso,con grande intelligenza e sensibilità, ancora oggi, ciascuno per conto proprio, fanno del proprio mondo interiore un universo carico di umori poetici e di ricchezza psicologica. Questo suo secondo libro può collocarsi nell’ambito della poesia dell’impegno sociale e della memoria, toccando corde che partendo da lontano giungono adesso alla piena maturità poetica, come in “Irpinia 1980”, “ Era il tempo”, e, soprattutto “”All’Italia”, un utile campanello d’allarme per chi ancora non vuole vendere all’ammasso il proprio cervello, ma vuole servirsi di esso per leggere con serenità e intelligenza il presente per non lasciarsi ingoiare da un futuro che per la stoltezza umana potrebbe riservarci sgradite sorprese. Attraverso le sue liriche, ricche di grande musicalità e di voluta profondità, capaci di evocare atmosfere e sentimenti che coinvolgono il lettore in prima persona, Messina colloca la sua storia in un “paese /con una sola strada /che mi legò col mondo/a sé mi tenne,/perché oltre quaggiù io non andai”(“Torre Archirafi”). Una piccola fortezza di mare dove sopravvive un mondo di sentimenti che rimangono spesso inespressi per chi non sa liberarsi dalle dolci pastoie di quel mondo consolatorio, ma per certi versi anche soffocante. In questo microcosmo “Torre Archirafi/nido/donde non volai/ cattivo esempio unico d’amore/dove più volte / e lungamente errai”, il poeta rimane custode fedele delle memorie individuali e collettive che esso racchiude, un uomo sfiorato è mai conquistato dall’amore in senso universale, destinato a consumare la sua vita in una dolce-amara solitudine poetica. “Quello che reca /ci ritoglie il tempo/ Il nostro vivere/il morire nostro,/in questo presentarsi/e accomiatarsi,/appena l’ombra d’avvertire/e di volere/ciò che si perde/ciò che non abbiamo.”(“Quello che reca”). Messina, facendo uso di una poetica caratterizzata da un’originale scansione ritmica, sa scavare nella psicologia umana, lasciando emergere connotazioni che partendo dall’intimo diventano universali. “Italia se l’Idioma ancor ci unisce, / e non è declamatorio il mio dire, / superando nei media il vivaio / dell’indegno sofisma dei ministri, / e il Dettato giuridico vetusto, / e lo scherno dei probi all’ignoranza, / e l’ermetico fumo dei poeti, / di qua donde più grama e più si vede / nostra Storia civile screditata, / e il giubilo e l’intrigo e l’apparire, / e ‘l torcere denaro nel potere…”(All’Italia).

Ripostese di nascita e giarrese di adozione, appartiene ad quel gruppo di poeti che negli anni 80 avrebbero potuto creare un movimento autoctono tutto etneo, purtroppo disgregato nel tempo, che adesso,con grande intelligenza e sensibilità, ancora oggi, ciascuno per conto proprio, fanno del proprio mondo interiore un universo carico di umori poetici e di ricchezza psicologica. Questo suo secondo libro può collocarsi nell’ambito della poesia dell’impegno sociale e della memoria, toccando corde che partendo da lontano giungono adesso alla piena maturità poetica, come in “Irpinia 1980”, “ Era il tempo”, e, soprattutto “”All’Italia”, un utile campanello d’allarme per chi ancora non vuole vendere all’ammasso il proprio cervello, ma vuole servirsi di esso per leggere con serenità e intelligenza il presente per non lasciarsi ingoiare da un futuro che per la stoltezza umana potrebbe riservarci sgradite sorprese. Attraverso le sue liriche, ricche di grande musicalità e di voluta profondità, capaci di evocare atmosfere e sentimenti che coinvolgono il lettore in prima persona, Messina colloca la sua storia in un “paese /con una sola strada /che mi legò col mondo/a sé mi tenne,/perché oltre quaggiù io non andai”(“Torre Archirafi”). Una piccola fortezza di mare dove sopravvive un mondo di sentimenti che rimangono spesso inespressi per chi non sa liberarsi dalle dolci pastoie di quel mondo consolatorio, ma per certi versi anche soffocante. In questo microcosmo “Torre Archirafi/nido/donde non volai/ cattivo esempio unico d’amore/dove più volte / e lungamente errai”, il poeta rimane custode fedele delle memorie individuali e collettive che esso racchiude, un uomo sfiorato è mai conquistato dall’amore in senso universale, destinato a consumare la sua vita in una dolce-amara solitudine poetica. “Quello che reca /ci ritoglie il tempo/ Il nostro vivere/il morire nostro,/in questo presentarsi/e accomiatarsi,/appena l’ombra d’avvertire/e di volere/ciò che si perde/ciò che non abbiamo.”(“Quello che reca”). Messina, facendo uso di una poetica caratterizzata da un’originale scansione ritmica, sa scavare nella psicologia umana, lasciando emergere connotazioni che partendo dall’intimo diventano universali. “Italia se l’Idioma ancor ci unisce, / e non è declamatorio il mio dire, / superando nei media il vivaio / dell’indegno sofisma dei ministri, / e il Dettato giuridico vetusto, / e lo scherno dei probi all’ignoranza, / e l’ermetico fumo dei poeti, / di qua donde più grama e più si vede / nostra Storia civile screditata, / e il giubilo e l’intrigo e l’apparire, / e ‘l torcere denaro nel potere…”(All’Italia).
Riesce ad adombrare i sentimenti senza mai involgarirli; è estremamente abile nel tracciare le linee dell’ambiente tanto che il paesaggio , la natura, i luoghi diventano quel quid in più capace di conferire sapore e spessore a versi giocati sul filo della memoria evocatrice, come nell’ultima sezione del prezioso volume, “Poesie dell’amicizia e dell’assenza”, che conclude significativamente il volume: ”Addio cortile oblio/della mia casa, voce/ove traudii la vita è l’infinito”.