Il 17 giugno 2023 si terrà a Niscemi il II Convegno Scientifico Nazionale dal titolo “La Salute Mentale Dentro e fuori le mura” organizzato dalla Cooperativa Sociale Led e il Centro Studi e Ricerca Led. Accendere un faro sulle condizioni di salute mentale delle persone detenute nelle carceri e proporre soluzioni ad un progressivo aumento del disagio psichico è lo scopo del Convegno Nazionale promosso dal “Centro Studi e Ricerca led” (accreditato ECM), in quanto si ritiene necessario analizzare la complessità del fenomeno inerente il rapporto che sussiste tra disagio psichico e carceri.
Il filosofo Fëdor Dostoevskij nell’opera “Delitto e castigo” afferma che: “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”; tale concetto espresso nel lontano 1866, permane attualissimo anche nella nostra società. Le istituzioni penitenziarie nella maggioranza dei casi, presentano carenze strutturali e di risorse umane; vengono sottovalutati e non attenzionati gli effetti dell’istituzionalizzazione e le conseguenti dinamiche di gruppo interne non mediate che favoriscono l’insorgere di problematiche psichiche gravi.
Di fatto nelle Istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente presenti. I disturbi psichici più frequenti hanno una duplice natura: da un lato è necessaria la gestione di una sintomatologia ansioso depressiva, dall’altro si impone il trattamento di forme psicopatologiche, alcune evidenziatesi in carcere, altre già presenti prima della detenzione. I dati raccolti fanno emergere chiaramente una costante e progressiva crescita del fenomeno suicidario nelle carceri a causa delle carenze suddette. La percentuale di suicidi all’interno delle carceri è 18 volte superiore a quello della popolazione libera. Inoltre ci si confronterà sull’importanza della presa in carico del detenuto con disagio psichico durante le tre fasi della carcerazione: ingresso – percorso detentivo –post pena.
Durante il convegno analizzeremo la complessità del fenomeno con diversi relatori esperti nel settore come Dott.ssa Rita Bernardini, Presidente dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, il Direttore dell’Istituto Penitenziario Minorile di Caltanissetta, Dottor Monaco Girolamo, Dott. Raffaele Galluccio, Membro di Psichiatria Democratica Nazionale, Dott.ssa Serena Berenato, Giudice Tutelare del Tribunale di Gela, Katya Maugeri, Giornalista e Scrittrice che ha svolto diverse inchieste nelle carceri italiane e tanti altri.
In che modo vengono affrontati solitamente i disagi attuali?
«Il disagio psichico nelle carceri è un problema molto ampio e complesso causato da molteplici fattori di rischio. Spiega il responsabile del Centro Studi e Ricerca Led, Luca Interlandi.
Attualmente gli interventi previsti di base sono il colloquio con lo Psicologo, la somministrazione di psicofarmaci prescritti dallo Psichiatra e delle attività previste dagli Educatori. Di fatto però queste figure sono insufficienti al fabbisogno del detenuto con disagio e non riescono a intervenire in modo adeguato sui problemi della persona. Inoltre, a livello metodologico non sussiste una presa in carico del detenuto come Equipe e di conseguenza un confronto tra le figure specialistiche che dovrebbero stabilire insieme una Progetto di cura che prevede una serie di interventi di sostegno terapeutici e non solo farmacologici. Gli psicofarmaci vengono ricercati dai detenuti, in particolare gli ansiolitici, come una sorta di “antidoto” immediato ma temporaneo alle sofferenze, sensi di colpa, sopportazione delle condizioni di vita quotidiana carcerarie, stigma. Gli psicofarmaci sono una sorta di “metadone” per ridurre la sintomatologia del malessere, ma di fatto non lo curano. Per la cura vera e propria una ipotetica Equipe dovrebbe prevedere percorsi di psicoterapia individuale e di gruppo, un percorso terapeutico riabilitativo e delle attività interne e quando è possibile anche esterne volte a pensare alla fase post detentiva».
Il carcere sembra essere considerato un non luogo fuori dall’interesse della comunità. Perché?
«Dal punto di vista sociologico le Istituzioni totali di tutte le società (civilizzate e non) derivano dal bisogno di “controllo sociale” attuato dallo Stato come forma di tutela. L’Istituzione totale rappresenta il “contenitore” che delimita e limita le condotte dei soggetti devianti. Di conseguenza è più facile rinchiudere che affrontare i problemi a livello psico sociale. Il pensiero comune che si ha in Italia della pena e delle strutture carcerarie, nella maggioranza dei casi non è riabilitativa, ovvero: “azione deviante – comprensione dell’errore commesso – reinserimento nel contesto sociale (riscatto), ma al contrario il detenuto anche se ha espiato la pena attraverso un percorso di fatto di sofferenza, rielaborazione del sé e della propria identità e magari la volontà di riscattarsi, è cosciente che alla fine della detenzione sarà visto in modo diverso e di conseguenza porterà con sé lo stigma dell’ex carcerato e spesso pure del “pazzo”. Per le persone più fragili, questa è una delle motivazioni che contribuisce all’aumento dei suicidi in carcere. La libertà tanto ricercata, in molti casi, a fine pena fa paura perché inevitabilmente la persona detenuta è cosciente del modo in cui sarà considerato all’esterno una volta uscito»
Quali sono le soluzioni concrete che andrebbero realizzate?
«Nell’immediato gli interventi da attuare riguardano il potenziamento del personale socio sanitario all’interno delle Istituzioni carcerarie: è necessario prevedere la formazione di una Equipe multidisciplinare che di fatto prenda in carico il detenuto con disagio psichico dall’inizio alla fine della detenzione con un progetto terapeutico individualizzato che definisca il percorso di supporto e di cura adeguato. Inoltre, è opportuno prospettare con le Istituzioni esterne al carcere, sanitarie e sociali, interventi di supporto continuo e di accompagnamento domiciliare dell’ex detenuto sia a livello psicologico, relazionale e lavorativo al fine di ridurre la reiterazione del reato o evitare di commetterne di nuovi. Accompagnare la persona che ha espiato la pena per riacquisire un ruolo nuovo all’interno del suo contesto sociale. Inoltre è importante mettere in atto il paradigma della “Restorative Justice” ossia della giustizia riparativa”, uno strumento giuridico previsto dalla Riforma Cartabia che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale, il mediatore penale.
La sfida culturale con cui prima o poi dovremo confrontarci riguarda il modo in cui intendiamo l’Istituzione penitenziaria, ovvero se realmente per la nostra società la pena è intesa solo come sanzionatoria rispetto ad una condotta grave, oppure può essere considerata anche una possibilità per l’autore di reato di comprendere il proprio errore, di lavorare su sé stesso per cambiare la propria vita».