La sartoria dei pensieri

La sartoria dei pensieri

di Concetto Ferrarotto

Un bottone, l’ho afferrato con la forza dell’ansia e si è sfilacciato. Adesso non mi resta più come chiudere l’impermeabile e quel bottone segna il confine tra la vita ordinaria e l’oggi, perché non so cucire, se sapessi cucire non avrei dove acquistare il filo, tutti i negozi chiusi, e la sarta pure lei è chiusa, per decreto. Piccoli incidenti, irrilevanti prima, irrisolvibili dopo. Fino a poco tempo fa dicevamo a chi non ha niente e raggiungeva le nostre coste che non ci rompesse le scatole e che in fondo poteva sbrigarsela a casa sua, a noi ci mette in crisi un niente.

All’inizio dell’emergenza mi dava fastidio il silenzio della sera, non lo potevo sopportare, come cantava Diodato a Sanremo, perciò accendevo la radio, ascoltavo musica e insomma provavo a rompere l’uniformità della città immobile.  Poi mi sono abituato, anzi quasi mi piace. 

Viviamo in uno spazio sospeso, in un tempo indefinito che non ha confini e si sovrappone a quello spazio privandoci di punti di riferimento, è il disagio della civiltà che tutto vorrebbe definire e controllare. E’ un dispetto al mito del perfezionismo. La mancanza di un orizzonte è forse ciò che più angoscia e francamente sono molto critico sulla comunicazione governativa al riguardo: questo nostro chiudersi non può durare all’infinito. Nemmeno può restare indefinito. Devono dirci che a un certo punto, oltre un dato punto, se non dovesse finire si cambierà strategia e si ritornerà comunque liberi. Abbiamo messo l’accento sulla tutela della salute fisica, inevitabile, abbiamo trascurato le emozioni che pure diventano malattia se li costringi in gabbia. Durasse per troppo tempo, qualcuno di noi diventerebbe ben presto un partigiano, un combattente per la libertà. Ma accettiamo l’oggi e adesso, suvvia si può fare. Per un tempo determinato. Non sono così convinto che il bene della salute sia senza limiti preminente sulla libertà: è una questione di proporzioni e di adeguatezza. Neanche al più incallito dei criminali piace leggere “fine pena mai”.

Intanto stiamo tutti a casa a interrogarci sul futuro, lo interroghiamo per anticiparlo. Questo è strano perché la nostra è una cultura che vive da decenni nel presente, ci chiamiamo ragazzi anche a sessant’anni, ascoltiamo la musica di trent’anni fa come fosse di oggi, neghiamo la giovinezza dei nostri figli per trasportarli istantaneamente nel nostro tempo che è uguale a ieri e non vede il domani. In fondo eravamo immobili già prima, soltanto non ce ne rendevamo conto. Ci voleva una pandemia per smuoverci e toccare con mano quant’è bello sognare un giorno nuovo. 

Anch’io sono parte della mischia, mentre scrivo ascolto How Deep is your love, era il 1977 credo. Nei miei pensieri lo dedico alla mia donna che si trova in un’altra città e la burocrazia ci separa. Dicevo, adesso guardiamo al futuro: ma lo facciamo con ansia e non è un buon modo. L’ansia non ha mai creato niente se non disastri. Ci vorrebbe desiderio. Un desiderio da costruire scavando nei nostri sogni, elaborando progetti, provando a comprendere cosa realmente ci rende felici. Ci vorrebbe silenzio per tutto questo, e il silenzio intorno l’abbiamo. Quindi tocca a noi fare silenzio delle nostre paure. Senza attendere che qualcuno ci autorizzi, apriamo una bella sartoria dei pensieri e creiamo il nostro futuro. Adesso.

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