L’Arte di Warhol: l’eccezionalità del più banale


 
 
 
 
 
|Pina Mazzaglia |

CATANIA  – Il Castello Ursino si veste di Pop e dedica a Andy Warhol i suoi spazi. Fino al 12 maggio sarà visitabile la mostra “Il Genio di Andy Warhol” una serie di opere importanti e alcuni cimeli appartenuti allo stesso Warhol, dalla serie delle dieci famose Ladies and Gentleman, alle Campbell’s Soup per arrivare alle insostituibili Marilyn: 58 opere in tutto, oggi di proprietà della Fondazione Mazzoleni, serigrafie ma anche una serie di cimeli di straordinario valore storico, tra i quali le chitarre firmate originali da Diana Ross e Michael Jackson con il mitico cappello bianco autografato, la Brillo Box , la bottiglietta in vetro argentato della Coca Cola. Acetati fotografici positivi e negativi del 1975, oltre a delle cover realizzate per i Velvet Underground, Miguel Bosè e Loredana Bertè; cover della rivista Interview Magazine autografate da Warhol, la nota Liz Taylor, a un rarissimo Mao serigrafato su carta da tappezzeria, e poi i flowers e gli inviti dedicati a Mick Jagger. Presenti anche cimeli di Muhammad Alì, come la cintura del titolo mondiale autografata dal campione, e Rocky Balboa, con pantaloncini e guantoni di Silvester Stallone del film Rocky 4.

Accostarsi a Worhol è come urtare in un prisma di specchi in movimento. La sua arte attinge dal “banale”, è fatta di “cose senza alcun valore”, oggetti di uso comune ai quali non pensiamo mai. Esibendo l’eccezionalità del “più banale”, amplificandone la potenza e potenziandone l’effetto, negando “in primis” le complesse gerarchie che istituivano fin all’interno l’orizzonte estetico, Warhol supera l’insuperabile e sacralizzata Arte per antonomasia. E di tutto questo l’artista ne era certo! A chi gli chiedeva perché avesse scelto di dipingere le zuppe in scatola Campbell, egli rispondeva: “Non volevo dipingere nulla. Stavo solo cercando qualcosa che fosse l’essenza del nulla, e quello lo era”.

Pertanto la Pop Art avrebbe potuto riscuotere tanto successo e Warhol diventare l’icona di quella che ormai tutti chiamano estetizzazione di massa, di cultura del consumismo così come intuito dal critico inglese Lawrence Alloway, che per primo nel febbraio del 1958, in un articolo intitolato The Arts and the Mass Media, pubblicato su “Architectural Design”, parla significativamente di Cultura Pop: una cultura fatta di immagini banali legata al consumismo di massa che assume un ruolo da protagonista assai più della cultura “alta” e ufficiale.

Ecco perché la Pop Art avrebbe potuto riscuotere tanto successo. Egli, infatti, aveva compreso che la questione è, nella nuova cultura, non essere considerato al pari dell’arte accademica, ma quanto agli oggetti che assurgevano a nuove icone e che si innalzavano nel panorama quotidiano dettato dai Mass Media come la Coca Cola, o la Marylin Monroe. Questi i suoi soggetti d’arte, ritratti con quantità di potenza fabbrile; una quantità che può servirsi di quello o di quest’altro, in cui immagini patinate da rotocalco, oggetti da supermercato, in poche parole il trademark, si trasforma in filosofia, valore aggiunto: il banale che si innalza a valore etico, artistico, estetico, morale. Egli infatti soleva affermare: “Solo la gente comune ama i miei quadri. Suppongo sia difficile per gli intellettuali pensare a me come a qualcosa di artistico”.

Il modo di vivere spregiudicato gli giova infinitamente e, proprio in quella grande fucina che e il suo studio, spazio che egli stesso trasformava di volta in volta, nascono i suoi più grandi capolavori: dalle opere in serie, volutamente realizzate in grandi quantità, ai documentari, ai film – lenti ma eccitanti – vere e proprie finestre aperte su quella realtà che troppo raramente riusciamo ad osservare da semplici osservatori. Una realtà che egli cerca di restituire allo spettatore quasi per eccitarlo e risvegliare il suo interesse per la gente, per le banalità comuni e più inquietanti di cui è fatta la nostra vita col lento suo scorrere, con il suo infinito “Panta rei”.

Qui è il punto, forse il più importante della vita dell’artista, il quale si orienta verso una forma di contraddizione custodita da ogni espressione del fare artistico, la possibilità stessa di un mondo davvero nuovo. Un mondo non in quanto isolato o costituentesi come pura utopia metafisica: ma in quanto capace di ospitare la radicale trasfigurazione della residualità artistica; di trasformarla in condizione di possibilità per un infinito potenziamento e una reale concretizzazione della natura originaria del fare umano. E tutto questo ci lascia pensare che, forse solo lui aveva compreso che compito dell’arte sarebbe dovuto – ho potuto essere – quello di farsi testimone del potentissimo nulla dell’esistente.

Ecco perché affermava di sé: “Sono certo che guardandomi allo specchio non vedrò nulla. La gente dice sempre che sono uno specchio, e se uno specchio si guarda allo specchio che cosa può trovarci?”.

Send a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *