L’assistenza psico-oncologica al tempo dell’emergenza nazionale da coronavirus

L’assistenza psico-oncologica al tempo dell’emergenza nazionale da coronavirus

di Luigia Carapezza – Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, Esperto in Psico – Oncologia

Per raccontarvi cosa fa uno psico-oncologo ai tempi dell’epidemia da coronavirus vi descriverò l’immagine più potente che senza dubbi mi ha lasciato intendere che tutto sarebbe cambiato e che bisognava riorganizzarsi per rispondere ai nuovi bisogni dettati dall’emergenza nazionale. Vi racconterò del silenzio dirompente sentito circa un mese fa in sala d’attesa del day hospital (Arnas Garibaldi, Catania) dove ognuno se ne stava coi suoi pensieri che a giudicare dagli sguardi avrei giurato fossero gli stessi del paziente vicino a un metro di distanza.

Era il 10 marzo, era l’indomani dal comunicato in cui il premier Giuseppe Conte annunciava al popolo intero che le misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sarebbero state estese sull’intero territorio nazionale (Dpcm 9 marzo 2020).  La sensazione era che persino un respiro in più fosse di troppo. Se mi trovavo in sala d’attesa era per raccogliere le opinioni dei pazienti all’indomani delle nuove disposizioni. Ascoltare e poi contenere le ansie. Discuterne insieme. Mitigarle almeno un po’. Calmare gli animi e incoraggiare. E invece c’era solo silenzio. Dovevo “inventarmi” qualcosa. Agire in antitesi mi sembrava una soluzione. Se c’era silenzio bisognava fare rumore. Se nessuno parlava dovevo farlo io. Ho raccontato la mia esperienza. Come mi sentivo dopo la notizia. Le mie paure che legittimavano le loro. La mia delusione nei confronti della gente che non collaborava. La fiducia nella sanità. A quel punto la mia auto-apertura aveva preso la forma del dialogo. Ognuno diceva la sua. C’eravamo sintonizzati. Il resto della storia ve la racconterò attraverso le parole dei miei colleghi con i quali condivido la più grande e unica esperienza della nostra vita professionale: essere psico-oncologi ai tempi della pandemia.

La prima testimonianza giunge da uno dei luoghi in prima linea durante questa emergenza: la regione Lombardia, dove in collegamento telefonico ho sentito Nadia Zambelli, psico-oncologa all’Humanitas San Pio X di Milano, dove lavora dal 2007. “Lavorare come psicologo in oncologia durante l’emergenza sanitaria significa essere in prima linea al fianco dei pazienti per accompagnarli nel loro percorso di malattia e di terapia in un momento critico a livello globale. Significa continuare a garantire, al pari delle altre prestazioni sanitarie, anche il supporto psicologico come parte integrante della cura oncologica.

La Zambelli racconta com’è cambiata la pratica clinica quotidiana che in parte si è dovuta riorganizzare per aderire alle misure di prevenzione e contenimento della diffusione del virus, che prevedono la limitazione degli spostamenti alle sole necessità indifferibili.  Nei casi differibili, ai pazienti è garantita la continuità del percorso psicologico attraverso un servizio telefonico dedicato, mentre – spiega la dottoressa Zambelli – sono riservate le modalità consuete con colloqui svolti in ospedale, ai pazienti che sono in trattamento chemioterapico. In questi casi la necessità di indossare dispositivi di protezione individuale e di mantenere la distanza di sicurezza introduce un cambiamento rilevante nel modo di comunicare con il paziente. Le mascherine nascondono gran parte del volto e il contatto fisico viene evitato. In uno scenario simile: “La parola diventa il mezzo privilegiato per esprimere supporto e trasmettere sicurezza, per accogliere il disagio e contenere le emozioni”. 

 

Quali sono i bisogni reattivi alla pandemia che lei ha potuto osservare nella sua attività?

“Negli incontri con i pazienti, sia in sede di colloquio che informalmente in sala d’attesa, quello che emerge è il bisogno di rassicurazione rispetto al fatto che le attività oncologiche non verranno sospese. I nostri pazienti hanno – come tutti – paura del coronavirus, ma vivono soprattutto l’urgenza della propria malattia e si interrogano sull’impatto che la situazione di emergenza generale potrebbe avere sulle proprie necessità di cura, sui rischi di essere contagiati e di poter sviluppare complicanze più severe rispetto alla popolazione generale.”

In questo periodo che cosa rende fondamentale il contributo dello psico-oncologo? 

 “Nei nostri pazienti l’emergenza sanitaria si aggiunge alla loro patologia oncologica col rischio di amplificare il senso di minaccia e di destabilizzazione che provano a causa della loro malattia . Credo che il contributo di noi psico-oncologi abbia il merito di offrire strumenti per contenere l’ansia e le emozioni negative e dare un senso a quanto sta accadendo in un momento in cui è essenziale gestire anche le implicazioni psicologiche e il potenziale traumatogeno della pandemia. Garantire la presenza in ospedale insieme agli oncologi e agli infermieri, essere a disposizione di persona, quando possibile o telefonicamente, ho visto che aiuta i pazienti e famiglie anche a mantenere un senso di continuità e di stabilità nel percorso di cura e nella quotidianità, a sentirsi più sicuri in un momento di incertezza generale”.

Quali sono le maggiori difficoltà riscontrate in questo periodo, quali quelle emerse dai pazienti?

I cambiamenti nella pratica clinica quotidiana rappresentano attualmente la sfida più grande, insieme ad una gestione dello stress personale, a cui tutti noi operatori sanitari siamo esposti; ma malgrado tutte le difficoltà, l’obiettivo è garantire a tutti i pazienti la migliore assistenza possibile. Nei pazienti oncologici ho potuto osservare, oltre ad un generale (comprensibile) aumento dell’ansia e delle preoccupazioni per sé e per i propri familiari, anche un crescente disagio per il cambiamento nelle abitudini di vita e per la riduzione dei contatti interpersonali. Penso ad esempio al fatto che non sia consentito (salvo rare eccezioni) agli accompagnatori l’ingresso in ospedale, il che implica per la persona ammalata non poter avere vicino il familiare di riferimento durante la visita, il ricovero o la seduta di chemioterapia. Continuare a restare vicini emotivamente pur nella lontananza fisica è possibile, ma è psicologicamente molto impegnativo sia per i pazienti che per i caregivers.”

Quando tutto questo finirà cosa le lascerà questa esperienza, cosa le avrà insegnato?

 “Di questa esperienza ricorderò senza dubbio la solidarietà umana: le manifestazioni di affetto, incoraggiamento e supporto, persino quelle che stiamo ricevendo dai nostri pazienti che esprimono la vicinanza tra esseri umani che al di là dei rispettivi ruoli, si trovano di fronte a difficoltà comuni. L’équipe di cura è per i pazienti un punto di riferimento e come curanti abbiamo la responsabilità di accompagnarli nel loro percorso oncologico e di rappresentare per loro la sicurezza pur nell’instabilità del momento storico che stiamo attraversando. Avere il sostegno dei pazienti è sempre prezioso nel lavoro di cura e posso dire che mai come in questo momento le persone ammalate ci stanno aiutando ad aiutarle”.

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