Le Città di Carta. Non chiudiamo teatri, cinema, musei e scuole, ma distribuiamoli nello spazio pubblico

Le Città di Carta. Non chiudiamo teatri, cinema, musei e scuole, ma distribuiamoli nello spazio pubblico

di Saro Faraci

terza puntata – continua

Continua la nostra chiacchierata con il prof. Maurizio Carta, urbanista, architetto e progettista, sul futuro delle città. Un tema di grande attualità, reso ancor più critico dalla situazione attuale caratterizzata dal dilagare della pandemia. Il docente universitario palermitano ha risposto acutamente ad altre nostre domande, dopo quelle pubblicate nella prima e nella seconda puntata.

– Nei suoi libri, lei fa sovente riferimento a nuovi luoghi di aggregazione per sviluppare partnership, collaborazione e contaminazione culturale fra le persone. L’emergenza sanitaria da Covid-19 sta mettendo a dura prova proprio i tradizionali luoghi di aggregazione, perché fonti di assembramenti e possibili focolai di contagio. In che modo allora sarà possibile favorire la contaminazione culturale fra le persone?

«La necessità di rivoluzionare i nostri comportamenti per adeguarli alla nuova normalità che la fase endemica (quella della convivenza con il virus) pretende, non significa abbandonare le grandi città, come propongono alcuni, né di associare al distanziamento fisico necessario per ridurre il contagio il distanziamento urbano, producendo, come conseguenza, una dispersione urbanistica che aggraverebbe l’impronta ecologica. Ritengo, invece, che dobbiamo reimmaginare “città della prossimità aumentata”, città ad intensità differenziata, policentriche e resilienti, con un più adeguato metabolismo circolare di tutte le funzioni, con una maggiore vicinanza delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi, con una nuova domesticità/urbanità dello spazio pubblico»

E cosa bisogna fare concretamente? 

«Dobbiamo usare la creatività del progetto, imparando dalla natura che si evolve per innovazioni, per adattamenti creativi e per inedite cooptazioni. Nel concreto, dobbiamo progettare la rigenerazione delle nostre città perché siano antifragili, capaci di usare le crisi per innovare, “luoghi mutaforma” capaci di adattarsi alle diverse esigenze delle città a prova di pandemia. Non più il tradizionale elenco di funzioni separate (figlio dell’urbanistica del Movimento Moderno, della città-macchina), ma, imparando dall’intelligenza della natura, un fertile bricolage di luoghi che siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando ruoli differenziati»

Una visione molto innovativa delle città che comporta inevitabilmente qualche sfida.

«La sfida per le città aumentate sarà quella di recuperare il loro naturale policentrismo, la diversità dei loro quartieri che, smettendo di essere fragili periferie, tornino ad essere luoghi di vite e non solo di abitazioni, colmando il divario educativo, lavorativo, culturale, digitale, dotandosi di micro-presìdi di salute pubblica e di comunità energetiche autosufficienti. Immagino città fondate su una nuova prossemica che riduca la forsennata mobilità centripeta, garantendo la risposta a molti bisogni entro un raggio di 15 minuti a piedi (lo stavano già facendo prima della pandemia Parigi e Barcelona, oggi imitate da moltissime altre, soprattutto da Milano). Città dello spazio domestico/urbano aumentato attraverso dispositivi temporanei e spazi intermedi che possano consentire una vita di relazioni in sicurezza: allargare i marciapiedi e prevedere pedonalizzazioni per ampliare gli spazi per l’educazione, il gioco e l’attività fisica, realizzare interventi di urbanistica tattica per il ripensamento dello spazio pubblico e per nuove modalità di fruizione della cultura e del tempo libero. Invece che chiudere teatri, cinema, musei, scuole, distribuiamole nella città e nello spazio pubblico e riutilizziamo edifici dismessi per accogliere le nuove funzioni condivise imposte dello smart working e le funzioni distanziate imposte dalla segmentazione cautelativa. Una sorta di fascia osmotica che dia forma a quel concetto di “rimanere nei pressi della propria abitazione” che caratterizza i provvedimenti di lockdown e che, invece che un odioso provvedimento, potrebbe diventare un vero e proprio progetto di città, riempiendo questi pressi di luoghi della cura e della cultura, di orti e playground, di attività produttive e di spazi per una vita relazionale più sicura perché distribuita e non assembrata»

Potrebbe esserci il rischio di una frammentazione della città in questo modo? 

«Non propongo, certo, una città di tribù recintate, ma un arcipelago di prossimità differenziate, connesso da una rete di parchi, giardini, vie pedonali, ciclovie, strade per auto elettriche a guida assistita, vere e proprie arterie di una mobilità sostenibile alternativa alla riduzione di capienza dei mezzi pubblici e alla esplosione di un inaccettabile ritorno all’automobile, che connettano in sicurezza i quartieri attraversando parchi e giardini, riutilizzando ferrovie in disuso, persino usando cortili e vicoli. Una “prossimità aumentata” in sicurezza che coinvolga lo spazio pubblico nell’abitare, definendo una fascia di prossimità (che si estenda e si restringa a seconda delle necessità epidemiche) che consenta di usufruire di attività che non siano solo individuali ma anche collettive, entro un limite di sicurezza e autosufficienza in caso di pericolo»

– E’ possibile riprogettare urbanisticamente le città, proprio in questo momento difficile in cui la pandemia genera paura del virus ma anche tensioni sociali connesse alle misure restrittive? Partiamo dal “qui ed ora” per guardare al futuro? O conviene aspettare che finisca la pandemia?

«In Italia, e soprattutto al Sud, non dobbiamo perdere l’occasione di governare la nuova ondata (sempre che non sia già tardi) con politiche e strumenti efficaci, di riattivare in forme nuove il tessuto economico devastato. Il governo della nuova normalità (ancora lontana, temo) deve essere una grande occasione per riarticolare il paese in città differenziate (rifiutando il modello omologante della grande metropoli), più basate sulla creatività e l’innovazione, abitate da comunità più autosufficienti e più sicure per la salute, senza  dover interrompere drammaticamente le attività»

Cosa si sente di proporre?

«Propongo un’Italia multiurbana fatta di città di diverse dimensioni e intensità che tornino a garantire la salute pubblica attraverso micro-presidi, invece che attraverso il modello del grande ospedale, che si basino su comunità energetiche autosufficienti (come sta avvenendo ad Amsterdam o a Friburgo), che estendano allo spazio pubblico i luoghi per l’educazione, il gioco e l’attività fisica (come sta facendo Barcellona nel Poble Nou). Le città medio-grandi sono il malato grave della seconda ondata della pandemia, ma possono essere anche la cura. La rigenerazione degli habitat umani nella perversa alleanza tra epidemie sanitaria, sociale, ambientale ed economica richiede di modificare le forme e i modi dell’abitare gli spazi domestici, collettivi e del lavoro, anche apprendendo dalle nuove pratiche che abbiamo sperimentato nei giorni del distanziamento (nuove relazioni digitali mature, modalità di mobilità sostenibile, solidarietà cooperativa, etc.)»

Occorre una visione strategica per dare una giusta cornice a tutte le sue proposte

«Serve un pensiero lungo, che guardi oltre l’emergenza. Serve il “pensiero delle cattedrali” (come scrive Telmo Pievani), «il pensiero dei costruttori medievali che gettavano le fondamenta di una cattedrale ben sapendo che solo i loro figli o nipoti l’avrebbero vista finita». La rivoluzione delle città a prova di crisi ambientale, sociale, economica e sanitaria è la nostra cattedrale!»

puntate precedenti: 12

continua

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