L'imposta mafiosa continua ad affliggere i siciliani

Katya Maugeri

CATANIA – “Sono stato ritualmente affiliato alla famiglia Santapaola-Ercolano, inserita in Cosa nostra, nel giugno/luglio 2008, nel corso di una “cerimonia” tenutasi a San Giovanni Galermo.
Nella circostanza Carmelo Puglisi è stato il mio padrino, mentre usavo appellare patrozzo Francesco Stimoli, ma solo per rispetto. Alla cerimonia erano presenti Santo La Causa, Enzo Aiello, Daniele Nizza, Fabrizio Nizza, Orazio Magrì, Benedetto Cocimano. All’epoca io ero il responsabile del territorio di Belpasso e San Pietro Clarenza. E gestivo, inoltre, la latitanza di Santo La Causa e Puglisi”.

Ed è proprio grazie alle dichiarazioni di Ignazio Barbagallo che emergono le dinamiche e le modalità della “tassa estorsiva” in Sicilia, per territorio, per competenza e gerarchia, e di quanto anche sulle grandi cifre si arriva addirittura alla presenza del rappresentante provinciale – la più alta carica dell’associazione mafiosa -, perché Cosa nostra non transige su nessuna piccola sottrazione di quello che ritengono sia loro. E gli affiliati stessi qualora venissero accusati di “azzampo”, ovvero di aver preso per sé proventi destinati alla famiglia, rischiano con la vita.

“Ho fatto parte del clan del Malpassotu” sin dal 1993/1994 – continua il collaboratore – sono stato arrestato nel 1994 e ho finito di scontare la pena del 2000, successivamente ho continuato la mia attività nel clan degli Stimoli fino al 2008 per poi transitare nel clan Santapaola dove prima del mio arresto, con la qualifica di uomo d’onore, mi occupavo in particolare della zona di Belpasso.

Dichiarazioni che spiegano quanto sia ramificato il fenomeno estorsivo nella nostra economia.

Uno degli episodi raccontati dal collaboratore di giustizia è relativo alla contesa per l’incasso del pizzo in un cantiere nella zona artigianale di Centuripe. “Nel cantiere di Enna gli estorsori appartenente alla famiglia Squillaci “Martiddina” di Piano Tavola, chiesero al mio amico, l’imprenditore Santo Tomasello, la somma di ventimila euro da versare in quattro rate, nella circostanza in cui fu sottratto un bobcat, quale atto intimidatorio. Precisamente l’estorsione fu effettuata da Turi Fallico di Biancavilla a quel tempo affiliato agli Squillaci. Successivamente chiesero ulteriori somme di denaro e a quel punto informai Raimondo Maugeri, all’epoca responsabile del Villaggio Sant’Agata della famiglia Santapaola. Mio soggetto di riferimento”.
Gli Squillaci intervennero per la famiglia di Enna – con il rappresentante provinciale della famiglia, chiamato “l’avvocato”, risentita perché la zona di Centuripe era territorio di loro competenza.

Infatti quando una ditta “vicina” a Cosa nostra si sposta in altre province per i lavori, paga il pizzo alla famiglia del luogo, che a sua volta, qualora affiliata all’organizzazione mafiosa, ne “girerà” una parte alla famiglia Santapaola.

Per mettere in cattiva luce l’azione “scorretta” degli Squillaci, dinanzi al rappresentante provinciale catanese, Enzo Aiello, “Raimondo Maugeri organizzò un incontro con Barbagallo, Carmelo Puglisi detto Melo u suggi, Angelo Santapaola, Melo Venia e Nicola Squillaci, “quest’ultimo disse – per giustificarsi – che si era accordato con i mafiosi ennesi a cui aveva promesso il provento dell’estorsione e che non poteva tornare indietro. Dopo quell’incontro non ebbi più rapporto con gli Squillaci”. Tacitamente, infatti, vennero accusati di “azzampo” e questo fu uno dei motivi che contribuì al loro passaggio nel clan Cappello/Carateddi.

Dalle dichiarazioni di Ignazio Barbagallo e dal coraggio di un testimone di giustizia è emersa finalmente la figura dell’imprenditore “avvicinato” al clan Santapaola, ben delineato nel ruolo dell’amico buono. E da queste deposizioni si è giunti al rinvio a giudizio per Santo Tomasello.

Tutte le attività economiche sono soggette all’imposta mafiosa. Pagando si contribuisce a rafforzare l’esercito di Cosa nostra, alimentato dall’omertà e dalla  rassegnazione di coloro che vedono il pizzo come una tassa “giustificata”, da pagare per potersi garantire protezione e sicurezza e la denuncia come un rischio da evitare. Denunciare è l’unica – sarebbe ora di capirlo – strada per combattere un esercito, quello mafioso, che ogni giorno si insedia nel nostro futuro.

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