Macbeth, una magarìa

Macbeth, una magarìa

| Giuseppe Condorelli | 

 

CATANIA. Un “far teatro” istintivo e mediterraneo. Epico e ctonio, in cui la parola – e soprattutto la vocazione al dialetto siciliano – si fa anche suono, magma archetipico, scongiuro e lamentazione: “magarìa” insomma, per utilizzare la parola che Vincenzo Pirrotta utilizza per il suo adattamento – per il quale ha curato pure scene e regia – del “Macbeth” di William Shakespeare (con la traduzione di Carmelo Rapisarda), uno spettacolo coprodotto dallo Stabile etneo e dal Biondo di Palermo.

Quello che Pirrotta porta sui legni del Verga è un mondo ferino e ferale, che proprio l’arazzo insanguinato che incombe sulla scena evoca per tutto l’atto unico: contrappunto allucinato al fosco bagliore del tradimento e dell’assassinio. Un mondo fortemente patriarcale, maschile e fallico – al posto delle streghe shakespeariane, Pirrotta sceglie invece sette spirdi – sul quale aleggia la lucidissima, perversa e malvagia ratio di Lady Macbeth che Cinzia Maccagnano abita con una recitazione stringente e appropriata.

L’operazione di rilettura di Pirrotta concede moltissimo (e non sempre con misura) alla metafora, al simbolo e all’allegoria: la sfrenata messa nera dell’incipit per esempio, (come non ricordare la sikinnis parossistica de “U ciclopu, l’alba dei satiri” che Pirrotta, attraverso Pirandello, mutuava dal dramma satiresco di Euripide?) offre una sorta di summa di tutta la vicenda e la chiave stessa della regia di Pirrotta, con gli splendidi costumi di Daniela Cernigliano (realizzati con la collaborazione degli allievi della sede palermitana dell’Accademia del Lusso di Milano), i movimenti e i canti (le musiche sono di Luca Muceri) che ricordano quelli della culture agro-pastorali mediterranee, in special modo i melaneimones, le “maschere nere” sarde, esseri spaventevoli della leggenda popolare con il loro carico sinistro di sonagli e profezie che legano letteralmente Macbeth al patto scellerato: l’assassinio di Banquo, legittimo sovrano.

Uno spettacolo di abbacinante e sinistra potenza, rito di sangue e di morte cui non sfugge nemmeno certa simbologia cristiana del martirio (la croce a Tau e la postura di Banquo assassinato che ricorda quella del martirio di San Sebastiano) e a cui prestano la loro efficace interpretazione Giovanni Calcagno, Marcello Montalto, Alessandro Romano, Giuseppe Sangiorgi, Dario Sulis e Luigi Tabita (attori e musicisti), ma che funziona a corrente alternata nonostante vada coraggiosamente al di là della (inutile) fedeltà al dettato originale attraverso un allontanamento: quando Pirrotta riesce cioè ad arricchirlo della sua cifra stilistica e drammaturgica, tra culture antichissime e riti tribali, tra espressionismo e silenzi devastanti, tra girotondi propiziatorie e sabba in chiave rap.

In questo universo nero lo sciamano Pirrotta-Macbeth “saziato d’orrori”, carnale voce-corpo, si muove con assoluta determinazione, dominando fisicamente la scena, inoltrandosi nel sangue fino al fondo del Male ma pure ammiccando, nella riuscitissima sequenza meta-teatrale degli specchi, al Grande Bardo e al mestiere eterno ed effimero di chi recita.

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