Maternità in carcere e bambini prigionieri

Maternità in carcere e bambini prigionieri

di Katya Maugeri

È un argomento doloroso da qualunque parte lo si analizzi. Una prospettiva lasciata in penombra: sospesa e quasi emarginata. A varcare il cancello di un carcere non sono solo uomini che hanno sbagliato e che scontano la loro pena, esistono anche donne detenute. E madri, con i loro bambini. Innocenti e già catapultati in una dimensione surreale e angosciante come quella carceraria. Bambini condannati al carcere e di conseguenza privati del loro diritto all’infanzia.

Il carcere è un labirinto costituito da troppe aree problematiche che restano delimitate da quelle pareti  di cemento. Un percorso confuso e disordinato dove la stessa identità rischia di perdersi, dissolversi e annullarsi.

Nelll’ultimo rapporto annuale di detenzione elaborato dall’associazione Antigone emerge che le detenute negli istituti di pena in Italia al 30 aprile 2020 sono 2.224 su un totale di 53.904 presenze. In percentuale, rappresentano il 4,13% della popolazione ristretta. Segnando un minimo storico: dal 1991, la presenza delle detenute nel totale della popolazione carceraria è sempre oscillata tra i 4 e i 5 punti percentuali, ma valori più bassi di questi si erano registrati solo nel 1998 e 1999, nel 2009 e nel 2015.

La percentuale di donne nel totale della popolazione detentiva che si registra al 30 aprile 2020, si deve principalmente al calo delle presenze seguite alle misure intraprese per il contenimento del contagio da Coronavirus nelle carceri.

Infatti, le detenute erano 2.702 su un totale di 61.230 al 29 febbraio 2020 (4,41%), ma in due mesi il loro numero è diminuito di 478 unità. Segnando dunque un minimo storico, nonché una battuta di arresto rispetto al trend crescente che si registrava dal 2015.

Sono solo quattro gli istituti penitenziari interamente femminili in Italia, che ospitano in totale 554 donne: un quarto della popolazione detenuta femminile.

Si trovano a Roma (307 donne detenute a fronte di una capienza di 206 posti, con tasso di affollamento pari al 167%), a Pozzuoli (106 detenute, 100% dei posti occupati), a Trani (30 donne detenute a fronte di 42 posti) e a Venezia (111 detenute per 75 posti, con tasso di affollamento del 167%).

L’elemento particolarmente critico legato alla detenzione femminile è la presenza di bambine e bambini in carcere. Le detenute con prole presenti nel circuito penitenziario in Italia sono 34 al 30 aprile 2020 (40 i figli a carico). Ma erano 54 (con 59 figli a carico) appena due mesi prima, il 29 febbraio. Si trovano all’ICAM di Lauro, a Salerno, Bologna, Roma Rebibbia Femminile, Bollate, Milano San Vittore, Torino Le Vallette, Firenze “Sollicciano” e Venezia “Giudecca”.

In mezzo a tanto disordine, quello che ancora riesce a scuotere le coscienze e ad attirare un po’ di attenzione, è proprio la condanna di un innocente alla carcerazione.

Se poi questo innocente lo è indiscutibilmente in quanto bambino al di sotto dei tre anni e figlio di una detenuta, entrata in carcere nel tempo della gravidanza, «la società è responsabile giorno dopo giorno dell’inevitabile danno che questi subirà per il suo sviluppo psicofisico e relazionale». Spiega Sandro Libianchi, presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.), dirigente medico presso il Complesso Polipenitenziario di Rebibbia, nell’approfondimento “Bambini in carcere”.

«La legge marzo 2001, n. 40, sostenuta dall’ex Ministro per le pari opportunità Anna Finocchiaro e concernente misure alternative alla detenzione per le donne con figli minori di dieci anni fu concepita per evitare loro l’incarcerazione e rispettare la c.d. “Unità madre-figlio” – continua Libianchi – anche in caso di reati gravi.

In questi casi le detenute possono chiedere la detenzione domiciliare speciale, sia pur con qualche limite, come quello di aver scontato un terzo della pena (quindici anni in caso di ergastolo) e non deve esserci il rischio di commettere ulteriori reati».

Queste condizioni però in molti casi si adattano poco a tutti quei reati che presentano un alto tasso di recidiva. Ad esempio quelli connessi alla legge sugli stupefacenti particolarmente frequenti nelle donne detenute.

«Inoltre la legge 40 si può applicare solo alle donne con condanna definitiva e non a quelle arrestate e in attesa di primo giudizio. Un altro limite all’applicazione di questa norma è il fatto che spesso le donne straniere che commettono questi reati non hanno un domicilio, né un’abitazione utilizzabile per la misura alternativa.

Tutte queste condizioni non hanno mai facilitato la reale applicazione della norma e se si vanno a valutare le presenze medie delle donne e dei bambini in carcere non si notano grandi differenze negli anni. Una piccola spinta alla decarcerizzazione di queste “unità” viene dalla possibilità di disporre di alloggi sorvegliati denominati a “custodia attenuata”. Ma che sono ancora rarissimi nel territorio nazionale».

La maggioranza delle donne che vengono incarcerate con minori di tre anni di età appartengono a due a ambiti problematici: la tossicodipendenza e l’etnia zingara.

La donna tossicodipendente con figli, specialmente se priva di terapia sostitutiva specifica, rappresenta un rilevante problema terapeutico. Per quanto riguarda la donna stessa al momento dell’arresto (crisi di astinenza) e il bambino, e per ogni ipotesi di piano terapeutico personalizzato.

La presenza di bambini residenti, anche temporaneamente, in strutture penitenziarie per qualsiasi motivo sembra la netta contraddizione ai diritti umani; eppure i diritti di questi bambini devono essere tutelati. Una realtà dannosa in grado di arrecare gravi e permanenti disagi al bambino, specialmente se iniziata in età neonatale e protratta per più anni. Servono soluzioni concrete per oltrepassare le sbarre dell’indifferenza.

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