|Katya Maugeri|
CATANIA – Lui è un emarginato, un fantasma, un invisibile. Un testimone di giustizia. Un imprenditore del quale per ovvi motivi omettiamo qualsiasi indicazione.
Il coraggio, in questo caso, ha il volto di un uomo che trasmette pienamente passione per la vita, il dovere di garantire ai propri figli un futuro migliore: con le azioni, con l’esempio, con la grinta di chi lascia agli altri il ruolo delle facili e sterili lamentele, per combattere in prima linea, in quella trincea chiamata mafia, estorsione, e urlare senza timore.
Perché i propri diritti vanno difesi, e non solo sul web o nei vari bla bla bla di cui è pieno il mondo.
Nella vita di tutti giorni, quando bussano alla tua porta e con violenza decidono di buttarti fuori di casa. La tua. E allora quel no, ripetuto, anche quando l’odore del sangue – il tuo – è forte e fastidioso, bisogna corazzarlo di forti motivazioni, e l’dea di un futuro libero lontano dal cancro della società, credo sia l’urlo più forte.
Telefonate, messaggi, sms. Verifiche incrociate per una sorta di reciproco “accreditamento”. I due appuntamenti che precedono l’intervista vera e propria si svolgono in un edificio “protetto”, in pieno centro, ma al sicuro da sguardi e orecchie indiscrete. Lunghe chiacchierate che servono per conoscersi, per aggiornarsi sulle strategie dei clan, per confrontare informazioni e impressione su “colletti bianchi” e impresentabili. Il testimone con il cellulare rassicura di tanto in tanto i carabinieri. Dalla prudenza si passa alla fiducia, reciproca, dalla curiosità professionale alla partecipazione personale. Il testimone di giustizia non è un eroe silenzioso, ma semplicemente un predicatore di dignità e coraggio. Perché la propria vita non si svende all’”amico buono”.
Chi denuncia deve attraversare una sorta di deserto spazio-temporale pieno di insidie, solitudine, delegittimazione. È sicuramente la fase più delicata, anche dal punto di vista psicologico, perché si è deciso di affrontare con coraggio una situazione di grande rischio e il rischio è anche quello di sentirsi solo, prima ancora di esserlo per un periodo più o meno lungo, subordinato all’esigenza di avere adeguati riscontri investigativi. Il nostro testimone di giustizia ci racconta anche questa fase, dolorosa: una sorta di via crucis che porta alla resurrezione, ad una nuova vita. Da schiavo a cittadino libero. “Cosa nostra catanese ha un’abilità imprenditoriale, che trova pochi uguali in Sicilia. I clan più importanti, hanno sempre avuto attività economiche “legali” parallele, che hanno ottimamente gestito, con le buone e spesso con le cattive, ma che hanno condotto con capacità per così dire manageriali, egemonizzato interi settori del mercato, come quello dei trasporti, dei lavori pubblici, del mercato ittico, ed altro ancora” – ci dichiara l’imprenditore che per anni ha subito, a seguito dei suoi no e delle sue continue denunce, insulti, ingiurie quotidiane, intimidazioni, minacce armate e gravissimi danni fisici. Più volte è stato picchiato, addirittura un braccio rotto veniva refertato con pochi giorni di prognosi, ma nemmeno questo è servito a piegarlo.
I suoi sono occhi che parlano, che con orgoglio brillano – nonostante abbiano visto scene drammatiche e infernali: è lo sguardo di un uomo: un imprenditore catanese che decide di denunciare, di dire no alla mafia, a caro prezzo. Siamo ben lontani dal concetto di estorsione al quale siamo abituati: incendi, minacce telefoniche, “tasse” mensili da garantire a chi, senza alcun invito, andava a trovare la propria vittima. Un fenomeno più subdolo che lascia le classiche lettere contenti frasi agghiaccianti per intraprendere un altro percorso: quello imprenditoriale.
«Alcuni operatori economici a Catania, ancora oggi, e anche tra i miei colleghi, sono convinti che la mafia è costituita da “uomini d’onore”, che rispettano delle regole, che non toccano donne e bambini, che ti difendono dalle rapine e dai furti e che spesso rappresentano una marcia in più per battere la concorrenza. Nulla di più falso! Loro hanno una sola regola e un solo dio: il denaro. E per quello sono disposti a qualsiasi nefandezza».
Lo abbiamo incontrato nuovamente, dopo un paio di mesi chiedendogli la condizione attuale dei testimoni di giustizia. Quello status di sospensione, di emarginazione che li priva di una identità, di un futuro, di semplici momenti condivisi con la famiglia, progetti e sogni da realizzare. Lui è sempre pronto a raccontare quanto sia assurda e inaccettabile la loro situazione: «Durante questi mesi mi sento di elogiare l’eccellente operato della magistratura e dei Carabinieri e ammonire totalmente la superficialità, il disinteresse, la poca volontà da parte dei politici che dovrebbero tutelarci, così come avviene con i collaboratori di giustizia».
Esiste quindi un trattamento differente destinato ai testimoni di giustizia e ai collaboratori di giustizia?
«Ci ritroviamo ad essere noi, testimoni di giustizia, che non abbiamo commesso reati e avuto il coraggio di metterci contro una realtà pericolosa e far assicurare la giustizia: nel mio caso sono due i clan coinvolti. Nessun gesto concreto dal Ministero degli Interni, quindi nessuno dei benefici che teoricamente dovrebbero tutelarci, è completamente disinteressato e paralizzato. Perché siamo pochi: una ottantina in tutta Italia e non facciamo numero. Tra di noi, inoltre non ci conosciamo pertanto non possiamo coalizzarci. E la mia profonda amarezza nasce dal fatto che ci ritroviamo delle persone che hanno fatto parte di Cosa Nostra per decenni, commettendo centinaia di delitti e reati e dopo essere stati arrestati, per coloro che scelgono di “collaborare con la giustizia” distaccandosi quindi dalla loro “famiglia” e accusando altri mafiosi – come loro –, riescono ad ottenere dei benefici immediati: la famiglia al sicuro, lo stipendio mensile, un’abitazione protetta, e i vari provvedimenti di protezione».
Si resta quindi in un limbo all’interno del quale la burocrazia è solo una strada per recare ulteriori danni alla vittima: è una traversata nel deserto. Un calvario.
Con l’attuale legge 44/99 dopo aver denunciato, il testimone di giustizia si ritrova senza alcun lavoro, senza alcun beneficio che possa garantire loro una identità e arginare la condizione di pericolo con le dovute misure di protezione ordinarie – e speciali, qualora servissero – la via d’uscita per liberare questi emarginati sarebbe l’approvazione della Camera alla proposta di legge 3500, dedicata a Rita Atria, che riforma il sistema tutorio dei testimoni di giustizia, di cui Davide Mattiello è relatore in Senato, ma ferma alla dogana del Senato.
«Il lavoro della Procura ha bisogno di tempo – dichiara l’imprenditore – le denunce, le deposizioni prima degli arresti, occorrono riscontri e prima di essere considerati attendibili – attraverso indagini e valutazioni – trascorre moltissimo tempo, quindi si ha alle spalle un periodo di sofferenza personale e familiare che destabilizza l’intera esistenza. Questo non avviene con i collaboratori di giustizia – specifica il testimone con tono infastidito – i quali usufruiscono immediatamente di ogni beneficio. Questa disparità di trattamento è vergognosa considerando che loro hanno commesso reati, omicidi recando danno alla società, il testimone di giustizia, invece è soltanto una persona che vive la propria vita e attraverso il suo operato garantisce la giustizia, nonostante questo non viene assolutamente tutelato. Ma da parte dello Stato non si riesce a trovare un accordo, un punto di congiunzione perché sostanzialmente manca la volontà politica – nonostante le commissioni antimafia – di dare una protezione di sicurezza ed economica ai testimoni di giustizia che sono dimenticati, emarginati. Gli unici casi che vengono sbloccati sono quelli di cui si occupa la stampa».
E le vittime di estorsione e usura continuano a denunciare nonostante questa precaria condizione alla quale chiaramente si proiettano?
«La denuncia ti libera dalla presenza costante dei mafiosi che pretendono come di usanza rapporti di soldi e amicizia, l’inserimento di “amici” all’interno delle aziende, a quali fornitori affidarsi, pretendono di entrare nell’economia delle aziende. La denuncia ti libera da questo, ma da quel momento quando la Procura e la Magistratura fanno il loro corso esiste un tempo interminabile scandito dalla risposta lenta da parte dello Stato. Una risposta incerta. Che fa di noi degli uomini senza identità».
L’operazione contro il clan Santapaola-Ercolano, ‘Chaos’, dei carabinieri del Ros di Catania, nei giorni scorsi ha permesso l’arresto di Antonio Tomasello, ritenuto l’attuale reggente della ‘famiglia’ di Cosa nostra e di 31 arresti, ma ciò che disarma è che «nessuno aveva denunciato – conclude l’imprenditore – le denunce stanno diminuendo e lo sarà sempre di più perché la vittima non accetta l’emarginazione e la condizione alla quale sarebbe costretta a vivere».
Quindi occorre necessariamente intervenire, in maniera concreta per garantire a coloro che hanno avuto il coraggio di ribellarsi a un sistema mafioso una vita dignitosa, una identità. Una dignità.