Pier Paolo Pasolini, un mistero lungo quarantatré anni

Katya Maugeri

Un’anima autentica, sincera, poetica e cruda che non volle mai accontentarsi. Un talento visionario che non accettò mai di omologare il proprio pensiero, né tantomeno le proprie azioni in una società che lo ritenne talmente scomodo da ucciderlo. Un uomo capace di apprezzare l’essenza della bellezza, la ricerca della verità. Forte, determinato senza alcun timore di cedere o lasciarsi intimidire dal potere. Ispirato sempre da una travolgente passione e da un costante conflitto interiore. È così che Pier Paolo Pasolini a quarantatré anni dalla sua morte continua a rappresentare sicuramente quell’intellettuale che osò raccontare le ombre mettendo a nudo la propria anima. E la sua morte nonostante gli anni trascorsi resta un enigma irrisolto: era la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, e Pier Paolo Pasolini veniva ucciso brutalmente: percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. L’omicidio fu attribuito a un “ragazzo di vita”, Pino Pelosi di  diciassette anni, che si dichiarò colpevole. Un agguato studiato in ogni dettaglio. Probabilmente con la scusa di trattare la vendita delle pizze del film “Salò”- rubate tempo prima -, lo convinsero ad andare a Ostia.

Un corpo, completamente ricoperto di sangue, mostrava profonde escoriazioni al volto, alla testa, alle spalle, e numerose ecchimosi. Dieci costole spezzate, il naso schiacciato sulla sinistra. Pasolini aveva raccontato, attraverso le sue opere un mondo che cambiava ponendo massima attenzione alla realtà emarginata del sottoproletariato. Nemico del perbenismo e testimone del degrado culturale della società. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale scomodo, che insieme al suo amico Alberto Moravia e a Cesare Pavese, fu l’ultimo intellettuale italiano degno di questo nome in un Paese ormai culturalmente emarginato e provinciale come quello in cui viviamo, orfano di una figura – come quella dell’intellettuale – ma ricca di sapientoni incapaci di esprimere il loro pensiero.

“Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo. Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità. Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spegnere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?” scrisse Oriana Fallaci in una lettera indirizzata idealmente all’amico, lei che espresse più volte i numerosi dubbi sulle indagini, elencando insieme ad altri giornalisti dell’Europeo, i molteplici errori dell’inchiesta.

Pino Pelosi muore lo scorso luglio. Cosa cambierà adesso? Muore con lui la possibilità di conoscere la verità o avrebbe continuato a interpretare il suo folle ruolo?

 

“La morte di Pino Pelosi cambia poco a mio giudizio. Questo per una serie di fattori che riguardano proprio la sua storia e le sue scelte” – ci racconta il giornalista Rai Valter Rizzo, autore del libro “Nessuna pietà per Pasolini” edito da Editori Internazionali Riuniti scritto insieme a Stefano Maccioni e Simona Ruffini, un brillante testo in cui questi quesiti irrisolti vengono affrontati attraverso ricerche certosine da un avvocato, un giornalista e da una criminologa. “Pino Pelosi, non ho alcuna difficoltà a dirlo, è stato il migliore amico degli assassini di Pierpaolo Pasolini – continua Valter Rizzo – non solo di chi ha materialmente massacrato il Poeta, soggetti che probabilmente Pelosi conosceva benissimo, ma soprattutto dei mandanti, di coloro che hanno voluto quel delitto, che hanno organizzato la morte di Pasolini, che hanno organizzato la sceneggiatura di quel delitto, perché Pasolini doveva morire, ma doveva morire in quel modo. Era facilissimo ucciderlo in qualunque momento, in qualunque posto. Era un poeta, un regista, un uomo indifeso.

Chi lo ha voluto morto, ha anche voluto uccidere la sua figura, delegittimarlo e delegittimare quello che aveva detto, scritto, raccontato. Pino Pelosi è stato uno strumento, un ingranaggio, una sorta di Malaussenne e, come il personaggio creato dalla penna di Daniel Pennac, è stato un perfetto capro espiatorio, ma al contrario di Malausenne, che mantiene sempre una sua fortissima etica, è stato anche un complice, mantenendo, con i suoi silenzi e le sue bugie, una coltre di protezione attorno a chi ha massacrato il Poeta. Un complice consapevole, minacciato, ricattato, probabilmente pagato da chi lo ha gestito per quattro decenni. Ma Pelosi è stato anche capace di proteggersi. Le minacce e i soldi, infatti, non garantivano in eterno il silenzio e chi lo ha gestito lo sapeva bene e lo sapeva bene anche Pelosi. L’unico modo per non essere un pericolo per gli assassini e le menti raffinatissime che stavano dietro agli esecutori materiali, era quello di squalificarsi, di rendersi inaffidabile, poco credibile. La menzogna, il mischiare verità, mezze verità, bugie ha fatto sì che Pino Pelosi, che forse era l’unico a conoscere gran parte della verità sul delitto, diventasse la persona in assoluto meno credibile. Qualunque cosa avesse detto sarebbe stata impossibile da decifrare nel labirinto di menzogne e verità che aveva creato. E in quel labirinto ha vissuto come un parassita, al sicuro, protetto per quarant’anni.

La sua morte dunque non cambia niente sul caso e di certo non può essere l’alibi per continuare a cercare delle risposte sulla morte di Pasolini.

L’ultima inchiesta della magistratura romana, affidata al sostituto Minisci, è stata chiusa dopo circa cinque anni di indagini che a mio personale giudizio sono da considerare inconcludenti e svogliate, condotte da un magistrato che evidentemente non ha mai creduto molto nell’inchiesta. Una lunga teoria di interrogatori, in larga parte inutili che nulla hanno aggiunto a ciò che già si sapeva.  Cito a memoria. Nessun approfondimento scientifico dopo l’esame del RIS sui reperti dell’idroscalo, che hanno isolato il Dna di alcuni SI. Quel Dna non è mai stato incrociato con alcuni personaggi che sono stati da più parti indicati come presenti all’Idroscalo a cominciare da Giuseppe Mastini, Jonny lo Zingaro. Si poteva chiedere la riesumazione per prelevare il Dna dei fratelli Borsellino, anche loro indicati tra i personaggi presenti all’idroscalo.

Nessun approfondimento sui dubbi pesanti che emergono dall’interrogatorio del ristoratore Vincenzo Panzironi, il proprietario del ristorante al Biondo Tevere, dove Pasolini si ferma con il suo accompagnatore prima di recarsi all’Idroscalo. Panzironi, uomo al di sopra di ogni sospetto, descrive l’accompagnatore di Pasolini con connotati che nulla hanno a che fare con Pelosi, una faccenda, che diventa ancora più inquietante se la si incrocia con l’interrogatorio di Pelosi dove il presunto assassino racconta una serie di cose sballate sulla cena al Biondo Tevere – ad esempio sbaglia il cibo che avrebbe mangiato, parla della presenza di camerieri che avevano lasciato il locale un ora prima dell’arrivo di Pasolini, non parla della moglie di Panzironi che era invece presente. Tutto è stato liquidato con la deposizione “spontanea” di un personaggio che dice di aver visto Pelosi con Pasolini quella notte, senza tenere minimamente conto che il testimone “spontaneo” era un uomo legato alla Banda della Magliana.

Nessun approfondimento sul ruolo che potrebbero avere esponenti dell’estrema destra catanese, picchiatori di professione, che conoscevano bene Pasolini che li frequentava durante i suoi frequenti soggiorni catanesi. Una circostanza quest’ultima, rivelata per la prima volta nel nostro libro e riferita da una fonte autorevolissima, che il pubblico ministero ha dimenticato di sentire”.

Durante la nostra intervista Valter Rizzo continua in maniera dettagliata la sua analisi relativa ai numerosi enigmi irrisolti: “A tutto ciò va aggiunto un fatto dirompente, che però è passato assolutamente sottotraccia.  In occasione dell’anniversario della morte di Pasolini, la cugina Graziella Chiercossi, che all’epoca del delitto conviveva con Pasolini e con la madre del Poeta, rilascia un’intervista a La Repubblica e per la prima volta riferisce, una circostanza che personalmente già conoscevo, in quanto mi era stata riferita dal compianto Gianni Borgna che aveva ricevuto la confidenza proprio della Chiercossi.
La cugina del Poeta racconta alla collega de La Repubblica, che non conoscendo il caso non ne coglie l’assoluta importanza, un fatto che cambia totalmente la ricostruzione ufficiale. Graziella Chiercossi riferisce che la notte del delitto, intorno alle due del mattino, due poliziotti, attenzione poliziotti non carabinieri, bussano alla sua porta chiedendo di Pasolini, spiegano che la sua automobile è stata ritrovata lungo la via Tiburtina. La ricostruzione ufficiale invece dice che l’Alfa Romeo di Pasolini sarebbe stata fermata, intorno all’una del mattino, mentre andava contromano con Pino Pelosi alla guida, sul lungomare di Ostia da una Gazzella dei Carabinieri. I due zelanti militari, scoprono che la vettura è rubata e portano Pelosi al carcere minorile di Casal del Marmo, dove Pelosi non trova nulla di meglio da fare che confessare di aver ammazzato Pasolini ad un ragazzotto che divideva con lui la cella.

Se l’auto di Pasolini era sul lungomare di Ostia, come poteva trovarsi praticamente quasi contemporaneamente sulla via Tiburtina, ovvero dalla parte opposta di Roma, dove l’avrebbero trovata i due poliziotti?  Un fatto che smentirebbe totalmente la ricostruzione dell’arresto di Pelosi che appare come una messinscena tra l’altro male orchestrata. Inutile aggiungere che Graziella Chiercossi non è mai stata sentita da un magistrato”.

Un omicidio ancora da decifrare, tante domande, troppi silenzi.

Un enigma irrisolto, contorto, che lascia molta amarezza. A quarantatré anni dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini vive ancora tra quesiti irrisolti, misteri e tra le contraddizioni rimaste in un limbo di riflessioni.
Il Poeta, però continua a vivere in quella preziosa eredità culturale – letteraria e cinematografica – che ha lasciato a un Paese ancora povero di ideali, vive in quella bellezza da lui tanto ricercata e apprezzata e in quella verità che cercò a tutti costi, ma dalla quale barbaramente venne massacrato.

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