Pino Caruso e l'ironia della morte

 

 

Daniele Lo Porto

CATANIA –  Un giorno, anni fa, lo chiamai al suo cellulare. Non ci eravamo mai sentiti prima, anche se io lo avevo visto a teatro in più circostanze. Ero insomma un illustre sconosciuto, ma ruppi il ghiacci citando uno dei suoi più bei aforismi, rivisto e ridotto da me. “Ho un’ignoranza enciclopedica: non so nulla di tutto”. Ne comincio subito a citare altri, uno dietro l’altro. Mi racconto in un’ora e mezza di telefonata al cellulare, tanto che scaricai tutta la batteria e poi lo richiamai con il telefono fisso, tutta la sua vita, spiegandomi anche il perchè del suo essere vegetariano. Era cresciuto alla Vucciria, dal francese boucherie, quartiere caratterizzato da macellerie una dietro l’altra. Da bambino era rimasto traumatizzato dai capretti tagliati in due, dalle teste di maiale, da cuori e trippa esposti, dai banconi sporchi di sangue. Da allora non volle più mangiare carne, “ma guardi, che anche i piatti vegetariani sono buonissimi”, disse quasi a volermi convincere. Non ci volle molto a citare peperonata e parmigiana, a ricordare i profumi della cucina povera siciliana che non prevede carne, ma erbe, verdure, ortaggi. Poi, quando eravamo ormai “amici” telefonici, gli ricordai che ci eravamo visti dopo un suo spettacolo a Catania, presentati da una comune amica, l’attrice Gabriella Saitta. Era Ciampa nel Berretto a sonagli di Luigi Pirandello. Lo aveva interpretato pochi mesi prima per una produzione dello Stabile. La regia era completamente diversa e Ciampa sembrava un altro personaggio, più defilato, quasi timoroso, un servo o poco più. Lui li aveva interpretati con rara maestria rendendoli efficaci e credibili entrambi. pensai che anche in questo si vedeva la grandezza dell’attore perchè Pino Caruso, superata la fase del cabaret, gli spettacoli in televisioni, il piacere che aveva di ironizzare su tutto e di fare sorridere con il garbo che la tv in bianco e nero imponeva: “Venga a prendere un caffè da noi, Ucciardone cella 36″ canticchiava per aggiungere con amara ironia “noi nel caffè non ci mettiamo lo zucchero…” con un riferimento al povero Pisciotta morto in una cella, ucciso da un caffè “corretto”.

Alla fine di quella lunghissima chiaccherata, non era un’intervista, mi chiese l’indirizzo: “le voglio mandare il mio libro”, mi disse. pensai ad una frase fatta, un modo elegante per congedarsi. Il libro, invece, arrivò, qualche giorno dopo, con dedica.

 

 

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