Politiche, la rappresentazione del cambiamento

Concetto Ferrarotto

I risultati elettorali possono avere vari livelli di lettura. Cominciando dagli sconfitti, quindi soprattutto dal PD, è sufficiente prendere atto che contro di loro si è verificata la tempesta perfetta. Ma anche Forza Italia non sta molto meglio, di Berlusconi la definizione più sintetica ed efficace è quel “sei scaduto” gridato dalla “Femen”, scaduta anche lei, con la sua protesta esibizionista ormai abusata. Il centro destra tiene comunque, anzi vince ma grazie a Salvini: per primi gli italiani, ha detto, ed ha vinto. C’è il successo dei cinque stelle, adesso chiamati alle loro responsabilità, senza sapere ancora se riceveranno o no l’incarico dal Presidente della Repubblica: il nostro rimane un sistema costituzionale di tipo parlamentare e proporzionale, il che complica di molto le cose quando nessun partito o coalizione raggiunge la maggioranza assoluta.

Ma stacchiamoci dalle alchimie politiche e dalle esigenze costituzionali per provare a guardare più a fondo lo stravolgimento del 4 marzo. Si è parlato di partiti populisti che vincono sui partiti di sistema, od anche di sconfitta della visione progressista del PD. Forse va meglio se utilizziamo altre categorie concettuali: vi è in Italia, come in Europa e in genere nel mondo occidentale, un nuovo dislocarsi delle forze conservatrici e di quelle riformiste. Anche la sinistra sociale oggi appartiene alle forze conservatrici, perché mantiene un approccio razionale all’interpretazione dei problemi. Le forze riformiste invece sono rappresentate da quei partiti che si pongono fuori dal solco della tradizione e della razionalità governativa, quantomeno negli slogan elettorali. Resta da vedere se il loro voler riformare il sistema si traduca in una visione progressista o regressiva: una chiusura radicale allo straniero e all’economia globale non sembra francamente granché proiettata nel futuro. Il punto è che i nuovi partiti a loro modo hanno fornito una risposta al disagio sociale.

Che non sempre è una stretta conseguenza della crisi economica, altrimenti non ci spiegheremmo il successo di Trump proprio quando gli Stati Uniti avevano ripreso il loro vigore economico e nemmeno la scalata di Salvini nel ricco centro-nord italiano. Bisogna comprendere che ci troviamo ormai da anni all’interno di un enorme cambiamento dei meccanismi economici e sociali, una rivoluzione incontrollata che suscita angosce e non trova parole per essere interpretata da parte di masse sociali impreparate al nuovo, scosse nelle loro sicurezze acquisite, sconfortate dalla prospettiva di dover cambiare il loro quotidiano per venirne fuori: al punto da esser ritornati a preferire le illusioni no-vax alla scienza medica. Ecco che arriva il successo di chi, fra le forze politiche, ha saputo trovare un messaggio sintetico che fornisca una parvenza di risposta a quelle angosce. Innanzitutto una risposta di identità, la prima possibile fra le identità: quella sovranista, nazionalista.

Il guaio italiano è che fin ora le forze riformiste hanno agito in condizioni prive di responsabilità ed è stato facile gridare contro il sistema, ingigantendo le colpe altrui. Per contro, le forze che si auto-definivano “responsabili” hanno peccato di superbia nel non intravedere l’urgenza di una soluzione che indicasse, quantomeno simbolicamente, un percorso di uscita dall’angoscia collettiva. Il nostro Paese sta meno peggio di cinque anni fa; la stessa Sicilia, regione fra le più arretrate economicamente, ha qualche accenno di ripresa, ma tutto ciò non è stato percepito dalla collettività perché non è stato rappresentato. Né poteva riuscirvi Renzi  a rendere una tale rappresentazione perché la sua azione politica ha abbandonato troppo presto il ruolo del rottamatore per sposare, nell’immaginario dell’elettore, quello del guardiano del sistema. A quel punto qualunque cosa dicesse o facesse non andava più bene, non poteva andar bene, essendone minati i presupposti rappresentativi.

L’Italia aveva bisogno di uno choc benefico, per esempio dello stesso importo complessivo degli 80 euro buttato tutto insieme sul tavolo a significare: ecco, il banco ci mette i soldi, adesso voi italiani potete giocare. Così non è stato. Si è puntato sulla riforma costituzionale, in realtà necessaria come scopriamo proprio oggi, purtroppo incomprensibile nel momento storico in cui le urgenze erano altre.

E qui viene fuori tutta l’attuale schizofrenia dell’elettorato. Assistiamo da molti anni, forse sin dal primo Berlusconi, ad uno smottamento del corpo elettorale verso una costituzione materiale che fornisca certezze, visibilità delle responsabilità politiche, consequenzialità tra chi vince le elezioni e chi assume il governo della nazione. Con l’implicito corollario di poterne giudicare l’operato e poi premiarlo o punirlo. Uno schema che per funzionare richiederebbe un sistema costituzionale orientato al maggioritario e al governo del premier, insomma la fine del parlamentarismo bicamerale così com’è. Eppure proprio quella riforma è stata rabbiosamente bocciata e non perché fosse di per sé raffazzonata ma, più radicalmente, perché ancora una volta si richiedeva il superamento dell’angoscia del cambiamento.

Quindi, dopo la fine della fedeltà alle ideologie dei partiti storici, ci ritroviamo con una mobilità dell’elettorato molto elevata, una richiesta di certezza o efficacia di governo,  ed allo stesso tempo con un rifiuto di qualunque strumento che possa strutturare l’alternanza nelle conseguenti responsabilità. Il risultato è stato un ripetuto navigare da una disillusione all’altra, un non so che di simile al passo del gambero che corrode le spinte al cambiamento.

Questo fino ad oggi. Da domani, sarà possibile assistere forse ad un nuovo percorso, sempre che i partiti vittoriosi comprendano i vincoli costituzionali che loro stessi hanno voluto conservare.

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